Devitalizzazione e disinnesco in “Tra le cose e gli altri” di Ivan Ruccione
Tra le cose e gli altri (Arkadia, 2021) è il secondo libro di racconti di Ivan Ruccione. Rispetto al precedente Troppo tardi per tutto (uscito per Augh! Edizioni nel 2019)[1], il nuovo lavoro di Ruccione si mostra più esile (nel complesso non raggiunge le settanta pagine) e particellare (i singoli testi sono quasi sempre al di sotto della mezza pagina). In questa rastremazione, però, non si nasconde solo un desiderio minimalista: all’asciugatura quantitativa risponde anche una nuova ragione narrativa – sospesa, cava, che rinuncia al colpo di scena.
La misura breve
La prosa di Ruccione – questa prosa, almeno – si distingue infatti per un contrasto abbastanza netto tra forma e sostanza: storie di marginalità, tedio, insufficienza, sconfitta (come vedremo più avanti) sono raccontate attraverso una scrittura che brilla per levigatezza e incisione. Nella prefazione, in realtà, Andrea Inglese commenta la scelta della «misura breve in prosa» come quella di «un territorio non fittamente solcato, che permette sperimentazioni, e quindi anche esitazioni, cambi di marcia, discontinuità». Questo è indubbiamente vero, e forse è il “programma” di Ruccione; nel senso che rispetto a Troppo tardi per tutto (dove i racconti tendevano comunque a sviluppare un arco narrativo), Tra le cose e gli altri, ritirandosi nella «misura breve», permette di rendere più significativo l’apporto della forma, di puntare di più sull’efficacia del ritmo e del dettato e non solo su quella dell’immaginazione.
È altrettanto vero, tuttavia, che i racconti di questa raccolta hanno degli elementi in comune, anche molto forti, e non solo in termini tematici. Che esistano delle «discontinuità», come scrive Inglese, è certo – e sono discontinuità, come lui nota, dovute anche al genere della prosa brevissima, genere sicuramente non premiato dall’editoria italiana e perciò, ai nostri occhi, particolarmente interessante. Due esempi su tutti che mostrano anche una certa dose di eterogeneità nel libro possono essere Appunti per un romanzo autobiografico – che estremizza l’allusività e frammentarietà della scrittura breve sostituendo un romanzo con il suo scheletro minimo (letteralmente, un elenco di quattordici punti) – e Stati embrionali – che invece si concentra su un personaggio ben caratterizzato, dettagliato, raggiunge le due pagine (è il testo più lungo del libro) e si colloca un po’ a metà tra questo e il libro precedente dell’autore.
Se quindi da una parte la scrittura di questo Ruccione si muove per oscillazioni e tentativi, dall’altra le stesse oscillazioni sono possibili solo partendo da un più definito baricentro. Questo si connota non solo per la già sottolineata brevità, ma anche per il ricorrere di alcune spie: l’apertura, nella maggior parte dei casi, con un verbo con soggetto sottinteso («Sogno», «Hai mal di testa», «Esco», «Accedo»…); l’assenza quasi totale dei nomi dei personaggi (al limite indicati solo con l’iniziale puntata); la chiusura che, pur non essendo effettivamente una gnome, sembra spesso dare una chiave d’interpretazione, magari anche solo di stampo emotivo («Le mie sciagure, invisibili, non spargono sangue», «Sei seduta sulla tua vita», «Sapessi dare un nome alle cose, a quello che succede, sarei già a buon punto»…).
Senza epica e senza speranza
Tenendo presente questa organizzazione del testo (comunque, come detto, trasgredibile e infatti trasgredita), capiamo allora che in Ruccione l’uso della prima, seconda e terza persona singolare (più raramente prima plurale) è quasi equivalente: il testo va a creare un’unità di senso, una scena colta in medias res e senza particolari sviluppi, per cui il punto di vista è solo tale, cioè letteralmente un angolo di sguardo su un “fatto” che è collettivo, condiviso, in cui tutti i soggetti senza nome sono invischiati. Non c’è una vera e propria epica, dunque neppure un titanismo, e ha ragione Inglese quando scrive che «i testi più belli di questo libro scommettono su […] la piattezza dell’attimo presente scorto nella folgorante ottica del ricordo.»
Piattezza e ricordo, dunque, nel senso che i movimenti del mondo paiono già dati e già compresi nel loro significato – non nel senso dell’onniscienza, però, bensì in quello dell’aver intuito una certa regola del quotidiano, che ritorna costantemente e ritornando non sorprende. Questa regola è fatta di lieve ma inesorabile decadimento (All’ufficio anagrafe), di incomprensione (Detriti), di indefinita nostalgia (Per un amico), di resa (Tecnica di sopravvivenza), di «anonimia» (La strada). La scrittura, in questo, funziona non solo come registrazione di uno stato irrisolto, ma – quasi autolesionisticamente – come sua scoperta, dal momento che è in grado di vedere una ridicola decadenza anche nei gesti e negli episodi quotidiani che diamo per ovvi. In Genesi (intitolato così in quanto primo testo, ma anche per illuminare proprio le ragioni della scrittura) leggiamo: «Mi siedo al tavolo, accendo il PC, scrivo: “Sono uscito per comprare un po’ di pane nel negozio sotto casa e ora sono distrutto”.»
Quotidianità e devitalizzazione
La quotidianità distrugge, allora. Ma non in maniera esplosiva, e neanche in forma di “accadimento”. La quotidianità distrugge in quanto tale, in quanto dispone una di fronte all’altra un’etica – collettiva oppure homemade – e una storia – cioè l’accadere dei fatti – che non si accordano. E non è un caso se l’attestazione di questa non-coincidenza la troviamo proprio nel brano che dà il titolo al libro: «Andare al lavoro, fare la spesa, coltivare amicizie e amori: obbedire a precetti che mi impongo o mi vengono imposti. Ipersensibile a stimolazioni esterne, io mi spolpo, mi devitalizzo.» Lo spazio che dovrebbe essere la vita nella sua ordinarietà (il quotidiano, appunto) diventa lo spazio della devitalizzazione, risultato di un gioco di contrappesi – aspettativa vs realtà, essere vs dover essere – che si rompe, e che è ben reso proprio da una prosa piana e “disinnescata”.
Per di più, le scappatoie dalla routine si rivelano inaffidabili o intasate, impedendo così anche il magro piacere dell’escapismo. La nostra epoca, come sappiamo, insiste soprattutto su uno specifico divertissement, pervasivo e sottomano, ovvero il social network. Ecco, ancora in una logica della non-coincidenza, Ruccione prevede questa possibilità, la colloca nel disfunzionamento e la mostra nella sua inefficacia: tre prose tra le più brevi (Facebook #1, #2 e #3) tracciano una linea che attraversa il libro, in modo da esaurire anche il possibile “oltre” della quotidianità, cioè la virtualità). Facebook si trasforma da spazio di archiviazione ad archeologia del dissesto, quindi in possibilità di correggersi («Accedo giornalmente solo per cancellare i ricordi […] edificare una persona migliore») ma a posteriori, quando tutto è già accaduto, e individua solamente lo spazio destinato al soggetto: Tra le cose e gli altri, dove si agisce e subito si cancella l’agito; si diventa una pellicola, qualcosa che semplicemente rimane, «vivendo al contrario».
Antonio Francesco Perozzi
[1] Ne abbiamo parlato qui: https://www.rivistagradozero.com/2021/03/12/eterodirezioni-su-troppo-tardi-per-tutto-di-ivan-ruccione/
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