Come suggerisce il nome, la situation comedy mette in scena una situazione, ancor meglio un contesto, in cui tutti possiamo riconoscerci: per questo prevalgono storie di famiglie, coinquilini, colleghi.
Un trionfo della quotidianità, insomma.
Il termine è stato usato per la prima volta per descrivere Lucy e io, la serie degli anni Cinquanta al centro del film attualmente disponibile su Prime, A proposito dei Ricardo (Being the Ricardos) di Aaron Sorkin, che ha fruttato a Nicole Kidman la sua quinta nomination agli Oscar. Da allora Hollywood si è specializzata in questo genere fatto di riprese in studio, risate preregistrate e personaggi destinati ad accompagnarci tutti i giorni con le loro divertenti avventure quotidiane.
I più grandi si ricorderanno Vita da strega (1964-1972) e Il mio amico Arnold (1978-1985), poi a partire dagli Anni Ottanta, di pari passo con l’esplosione del cinema hollywoodiano, il numero di serie statunitensi destinate a diventare dei classici è aumentato a dismisura: Seinfeld (1989-1998), Willy, il principe di Bel-Air (1990-1996), La tata (1993-1999) e Friends (1994-2004), forse la più mitica sitcom di tutti i tempi, con i protagonisti pagati a peso d’oro. Per i millennial più giovani ci sono state The Office (2005-2013), How I Met Your Mother (2005-2014), The Big Bang Theory (2007-2019) e Modern Family (2009-2020). Ogni generazione ha avuto così le sue sitcom di riferimento, consentendoci di far entrare nella nostra vita di ogni giorno dei personaggi simili a noi.
Occorre anche ricordare poi la rilevanza sociologica e culturale di alcune sitcom, che con risate e scene di quotidianità hanno abbattuto non pochi tabù portando nelle nostre case situazioni all’epoca tutt’altro che ordinarie perché sconosciute ai più: pensiamo a I Robinson (1984-1992), che diffusero nelle tv di tutto il mondo la “banalità” di una famiglia afro-americana, oppure a Will e Grace (1998-2006, poi ripresa nel 2020) che sdoganò l’omosessualità: con queste due serie, neri e membri della comunità LGBT non erano più dipinti come macchiette o vittime di discriminazioni, segregazione e tragedie, ma diventavano protagonisti sorprendentemente ordinari.
Ma che cosa sono le sitcom per la cosiddetta generazione Z?
The Big Bang Theory e Modern Family si sono concluse da poco, è vero, ma non sembra esserci all’orizzonte nessun altro titolo pronto a prendere il loro posto. E forse non ci sarà. Perché la sitcom, forse più di altri generi e format, è molto debitrice della Tv: l’appuntamento quotidiano, dal lunedì al venerdì, con uno o due episodi è ormai superato e sostituito dal binge watching, che rende la fruizione più immediata e concentrata, annullando quell’aspetto di quotidianità che aveva caratterizzato la visione delle sitcom.
Nell’ampio catalogo delle principali catene di streaming, si alternano sitcom vecchie e recenti, ma mai nuove: nessuno più infatti sembra puntare su questo genere. Tra i pochi titoli nuovi, vale a dire diffusi negli ultimi anni, vorrei allora segnalarvi Superstore, disponibile su Netflix ma prodotto da NBC e approdato già su Italia Uno. Prenderà il posto delle precedenti? Certo che no, anche perché è passato inosservato in Italia ed è stato ignorato da premi e critica in patria, pertanto è improbabile che Netflix possa sconvolgerne le sorti.
Eppure Superstore può essere un ottimo diversivo.
L’ambientazione è sempre quella di un luogo di lavoro: in questo caso un centro commerciale statunitense. La storyline principale è quella del personaggio del giovane Jonah, un nuovo commesso che rimane subito attratto da Amy, la dipendente con maggior esperienza. I due sono interpretati rispettivamente da Ben Feldman, già visto in Mad Men, e America Ferrara, protagonista pluripremiata di Ugly Betty (2006-2010). Al loro fianco si alternano le vicende di una moltitudine di personaggi, tutti piuttosto strampalati e quasi tutti irresistibilmente divertenti.
È proprio la descrizione dei personaggi il punto di forza della serie, capace di farci affezionare a ognuno di loro nonostante le loro stranezze e i loro limiti, in cui vengono esasperati quelli che possono essere i punti di forza e debolezza di ognuno. E poi c’è il Cloud 9, questo centro commerciale immaginario che riconoscerete anche in serie come Good Girls e The Mindy Project, con cui c’è stato un crossover. Ma soprattutto, Superstore è divertentissimo ed è in grado di farci ridere anche dell’attualità.
A differenza di molte serie degli anni Novanta, dove riferimenti all’attualità venivano volentieri banditi per non creare malumori, Superstore è uno show molto attuale, perfino molto politico e coraggioso: cambiamento climatico, Trump, Black Lives Matter e per ultimo il Covid-19 sono tematiche entrate nello svolgimento di una sitcom che vuole dipingere la quotidianità senza estraniarsi dal presente. Superstore così è stata una delle prime serie tv a introdurre mascherine, distanze di sicurezza e normative confuse riproponendo situazioni in cui tutti noi siamo incorsi. La pandemia però non ha giovato alla serie: l’emergenza sanitaria ha fatto chiudere anticipatamente e in modo improvviso la quinta stagione e nella sesta e ultima stagione la produzione si è vista costretta a ridurre il numero di episodi, questa volta in modo drastico, costringendo gli autori a un finale frettoloso che non rende giustizia alle dinamiche che i singoli personaggi hanno portato avanti per sei anni. Restano comunque cinque stagioni e mezzo divertenti e godibili, da recuperare al più presto. E il binge watching è permesso.
Carlo Crotti
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