La “Hamletmaschine” di Müller a Napoli. Osservazioni postume.
La prima pièce teatrale che ho visto dopo il lockdown è stata Hamletmaschine di Heiner Müller. Era novembre, mi trovavo a Napoli e guardando distrattamente il programma del Teatro Bellini i miei occhi hanno individuato immediatamente il cognome Müller. Graditissima sorpresa, anche se il titolo era scritto Hamletmachine, con spelling inglese.
Avevo seguito un seminario dottorale su Müller proprio qualche mese prima, non è un autore che normalmente si arriva a trattare nei programmi universitari, dunque andavo a vedere lo spettacolo con grande curiosità. Ovviamente, da bravo secchione, avevo letto il testo qualche ora prima di avviarmi – è di circa nove pagine – e a prima lettura ci avevo capito ben poco: l’opera è costituita da 5 Bilder, cinque quadri, apparentemente sconnessi tra loro. Difatti non c’è una vera e propria trama: nel primo, Album di famiglia (Familienalbum), Amleto descrive il funerale del padre; il secondo, l’Europa della donna, (Das Europa der Frau) è un breve monologo nel quale la protagonista Ofelia si ribella al mondo degli uomini; nel terzo, Scherzo, Amleto incontra Ofelia, vestita ora da prostituta, e fa la sua comparsa anche Claudio; nella quarta, la scena più lunga, ovvero Peste a Buda battaglia in Groenlandia (Pest in Buda Schlacht um Grönland) Amleto si rivolge al pubblico come “attore di Amleto”, strappa la foto dell’autore (ovvero di Müller) e spacca con una scure la testa di Marx, Lenin e Mao. Nell’ultima, Attesa desolata / Nella spaventosa armatura / millenni (Wildharrend / In der Furchtbaren Rüstung / Jahrtausend) fa nuovamente la sua comparsa Ofelia: si dichiara novella Elettra, urla di rinunciare al mondo a cui ha dato vita, ciò mentre due uomini in camice bianco la avvolgono con alcune bende bianche. Questo sulla carta.
Amleto e Ofelia in un’unica persona
Nell’adattamento teatrale di Sergio Sivori la pièce si è ridotta a un one-man show, unicamente interpretato da Rino Di Martino che, all’ingresso del pubblico in sala, si trovava già mezzo nudo sul palcoscenico insieme a tanti piccoli oggetti di scena e a una poltrona al centro. Lui era Amleto, Ofelia e tutti gli altri. Malgrado l’ottima performance dell’attore, la messa in scena non è stata molto di mio gradimento: dopo aver letto il testo, dai dialoghi farneticanti, avevo cercato qualche esempio di adattamento, giusto per farmi un’idea su come si potesse dar vita a qualcosa del genere. Nulla di ciò che avevo trovato era simile allo spettacolo del Bellini: sul cartellone all’ingresso, così come sul volantino distribuito prima di entrare in sala (molto fuorviante nel suo contenuto, a parer mio), si leggeva: “Sergio Sivori trasforma il testo di Heiner Müller in un sadico gioco teatrale che indaga l’animo umano… una partita a scacchi tra la vita e la morte!”. Sono trascorsi diversi mesi dalla visione dello spettacolo, e rileggendo l’opera, accompagnato questa volta da alcuni testi critici, credo che il regista si sia di parecchio allontanato dall’intento originale di Müller. Provo di seguito, senza alcuna pretesa, a dare qualche notizia sull’Amleto mülleriano.
La storia dietro il testo mülleriano
Dopo la Seconda guerra mondiale, la prima opera teatrale messa in scena a Berlino nel 1945 fu Nathan il saggio (Nathan der Weise) di Lessing. L’intento, dato il contenuto del testo, era chiaro: far passare un messaggio di tolleranza. Subito dopo, venne messo in scena l’Amleto di Shakespeare. Come nota Richardson [1], non è la prima volta che l’Amleto assume un particolare significato politico all’interno della storia tedesca: la scelta di mettere in scena l’Amleto non è mai casuale, in quanto nella sua figura si rifletteva l’identità politica. Nel 1977, a Berlino Est, Benno Besson, personaggio chiave della scena teatrale di lingua tedesca, mise in scena l’Amleto con la traduzione di Heiner Müller. L’adattamento «è stata un’altra pietra miliare nella produzione e ricezione shakespeariana, [in quanto ha] messo in discussione la nozione di una diretta continuità tra l’Inghilterra elisabettiana e la Germania est socialista». [2]. Al contrario delle traduzioni canoniche dell’Amleto a opera di Schlegel e Tieck, quella di Müller cerca di “svecchiare” e rendere contemporanea in tedesco la lingua di Shakespeare [3]: proprio in questa operazione nasce la sua Hamletmaschine.
L’idea è arrivata durante un viaggio nel ’77 in Bulgaria riflettendo sulla figura di Traicho Kostov, ossia l’equivalente bulgaro di Lazlo Rajik, una delle vittime più famose della caccia alle streghe stalinista, ucciso e riabilitato in un secondo momento. Inizialmente, aveva in mente un’opera di circa duecento pagine ma, conclusa la traduzione dell’Amleto, buttò giù le nove che conosciamo oggi come Hamletmaschine. Nella sua autobiografia leggiamo:
Avevo in mente già da diverso tempo un piano, ossia quello di scrivere una pièce sull’Amleto. Mi interessava la variante dell’Amleto come figlio di un Rajik, di un Slansky o Kostoff. Di Kostoff non sapevo nulla prima, di Rajik sì, in quanto era il caso più conosciuto. Amleto torna a casa dopo la sepoltura del padre e deve continuare a vivere. Amleto a Budapest. Mi ero immaginato una pièce di circa duecento pagine […]. [4]
Perché la “macchina-Amleto”?
Il titolo (come racconta ancora nell’autobiografia) nacque per caso mentre ne stava cercando un altro per la raccolta dei suoi scritti “shakespeariani” che doveva pubblicare per la casa editrice Suhrkamp [5], ossia Shakespeare Factory, con riferimento alla Factory di Warhol. Il passaggio mentale da Warhol a Duchamp con la sua Machine Célibataire (vedi l’immagine sotto) fu immediato: ne uscì fuori il titolo Hamletmaschine (in cui molti hanno visto H.M. come le iniziali dell’autore, Heiner Müller).
È un’opera difficile da mettere in scena, perché è stata scritta intenzionalmente per resistere a ogni tipo di produzione:
Alla fine, qualsiasi artista teatrale intenzionato a lavorare alle opere di Müller si troverà faccia a faccia con un’impetuosa e allarmante libertà, in quanto per le opere di Müller, più di ogni altro scrittore di teatro, la chiave per il successo deve essere inventata per l’occasione da coloro che, per mettere in scena le sue opere, devono possedere un’immaginazione informata storicamente e attiva politicamente. [6]
Hamletmaschine è stata definita come l’ineseguibile risposta all’impasse estetica dopo il 1976 [5]. L’opera è costituita da blocchi monologici perché, tenendo presente la situazione bulgara, era impossibile costruire un dialogo, riflettendo, forse, anche sull’impossibilità del dialogo nella DDR: non è un caso che l’opera, pianificata per essere eseguita subito dopo l’Amleto, sia stata messa in scena la prima volta nella Germania dell’est solo dopo la caduta del muro:
Quello che avevo notato in Bulgaria era l’impossibilità di inserire dialoghi nell’opera, ovvero trasportare l’opera nel mondo del socialismo staliniano esistente. Non c’erano più dialoghi. Ho provato più volte a inserirli, ma non ci riuscivo, non ce n’erano, al loro posto solo blocchi monologici e il tutto si è rimpicciolito a questo testo. [7]
Dunque l’impossibilità del dialogo come uno dei temi centrali dell’opera, ma c’è ancora molto di più, come il binomio uomo-donna: da un lato troviamo Amleto, brechtianamente consapevole di essere attore, che si rende conto del fatto di non poter essere protagonista della sua opera, facendo allo stesso tempo menzione alla devastazione della situazione attuale; dall’altro Ofelia-Elettra, che vuole distruggere il mondo che lei stessa ha creato. Se a impersonificare questi personaggi troviamo un solo attore, per quanto interessante come idea, molto del significato originale va, a mio avviso, perso completamente.
È grande e complesso, dunque, il materiale contenuto all’interno della Hamletmaschine di Müller, materiale che forse, nella esecuzione napoletana, avrebbe meritato maggiore studio e una messa in scena un po’ più approfondita di una banale “partita a scacchi tra la vita e la morte!”.
Giovanni Palilla
[1] Richardson, M. D. (2006): “Allegories and Ends: Heiner Müller’s ‘Hamletmaschine’”. In: New German Critique, No. 98, Heiner Müller, pp. 77-100.
[2] ivi, 86-87.
[3] Traduzione che, tra l’altro, ha dato luogo a un processo per plagio, da cui è uscito assolto.
[4] Müller, H. (1992): Krieg ohne Schlacht: Leben in zwei Diktaturen. Köln: Kiepenheuer & Witsch, pp. 292-293. Il passo è stato tradotto da me, ma esiste una traduzione italiana: Müller, H. (2010): Guerra senza battaglia: una vita sotto due dittature, a cura di Valentina Di Rosa; postfazione di Durs Grünbein. Zandonai: Rovereto.
[5] Pubblicazione che, successivamente, non avvenne a causa di disaccordi tra l’autore e la casa editrice.
[6] Kushner, T. (2001): “Foreword”. In: A Heiner Müller Reader. The Johns Hopkins University Press, p. 14. Mia traduzione.
[7] Müller 1992, p. 294, mia traduzione.