Racconto Confine
Call Nella camera chiusa
Salgo sulla sedia, che diventa il mio palco. Il coltello nella mano sinistra è un microfono, l’enorme patata mezza sbucciata, che stringo con forza nella destra, è perfetta come teschio di Yorick. Allargo le braccia il più possibile, come se fossi in croce, ma più le tendo e ancor di più i lividi sulle spalle mi fanno male. Penso oltre. Un inchino di qua, un altro di là. Le pantofole in lana consumata che indosso da tre giorni rischiano di farmi scivolare da quassù, ma mi faccio forza guardando il mio pubblico e divarico le gambe, assumendo una postura sicura.
La gente si sta accomodando con ordine sulle poltroncine, sistemate tra il frigorifero e il tavolo non apparecchiato. Quelli già seduti ammirano per certo il mio grembiule sporco della marmellata d’uva con cui ho riempito i cornetti per la colazione, ma loro lo vedono che è una tunica verde e il lungo canovaccio che ho annodato sotto al mento è il mio mantello. Mi mancano un collo in pelo marrone, una calzabraga in tinta e un copricapo. Ma tant’è. D’altra parte non credo si sia mai visto prima un Amleto donna. Schiarisco la voce e accenno una leggera genuflessione riverente alla folla che in silenzio attende le mie parole. Un ginocchio scricchiola, pensavo che almeno quello non fosse così grave. Resisto. La pentola a pressione, con dentro il brodo per la cena di stasera, fa un fischio: neanche se lo avessi programmato, avrebbe potuto essere tanto perfetta e puntuale. È come un incitamento a iniziare. La guardo, ammicco compiaciuta e la ringrazio. Se le stoviglie appese alle piastrelle potessero tintinnare l’una contro l’altra, sembrerebbero raccolte in un applauso e loro sarebbero la mia claque. Silenzio adesso. Chino il capo e mi concentro, lo rialzo. Mi porto il coltello alle labbra come a provare che la voce arrivi stentorea anche nelle ultime file e dondolo il capo con occhi compassionevoli verso la patata scalpata. Per calarmi nella parte, scruto con espressione profonda l’infinito, che in verità si conclude sulle pareti gialle che ho a due metri di fronte a me.
Le abbiamo ridipinte ultimamente; anche se dicono che fa male, si sente ancora quell’odore pungente di toluene che a me piace tanto e che, grazie a Dio, copre gli altri olezzi che ogni tanto arrivano a zaffate. Quel giallo sui muri è come il sole, accende l’aria e la mia pièce potrebbe essere una matineè all’aperto, così più gente ci raggiunge. Mi volto indietro solo per pochi secondi, dandomi un tono da attrice navigata, e l’enorme latta da venti chili di vernice gialla, proprio quella che abbiamo usato per tinteggiare questa stanza, mi osserva da lontano. Non l’abbiamo ancora portata in discarica. Sta lì, solitaria, a guardarmi, in disparte in un angolo, come un anfitrione che si è messo in testa di far pagare il biglietto agli ospiti. Le sorrido e scuoto i capelli in segno di amichevole disapprovazione. Avrei preferito che lo spettacolo fosse gratuito. Assaporo qualche secondo di quest’atmosfera effimera, in cui mi godo il fiato sospeso degli astanti. Gli spettatori e le spettatrici da lì non possono di sicuro sentire il mio alito stantio, ma mi laverei volentieri i denti.
Per un attimo, delle lacrime infami mi inondano il palato, senza avvertirmi. Non devo pensarci, i giorni passati sono solo tali e quelli futuri promettono ancora l’illusione del cambiamento. Vado avanti. Anche se non è esattamente quello il punto giusto dell’opera, l’idea del teschio in mano mi piace e me la tengo. E dunque declamo ad alta voce.
“Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine? Morire, dormire…nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci riflettere. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga…”
Giorgio dall’altra stanza mi urla di abbassare la voce. Me lo immagino, lungo e spento, sul divano, davanti al televisore acceso. A quest’ora starà guardando un’altra puntata della serie che lo assorbe senza tregua. Lo ascolto, ogni tanto ride a qualche scena divertente, a volte dice al protagonista cosa deve fare e immagino che gli lanci contro le ciabatte. Sì, starà vedendo quella serie. Non è l’ora del calcio. La sua squadra sta andando male, lo intuisco dai moccoli che lancia quando guarda le partite. Poverino, mica è colpa sua se è costretto da settimane a stare in casa. E anche del dopo, ancora si sa poco. Della sua serie tv che gli piace tanto ho solo capito che parla di un tipo che cucina metanfetamine in garage, perché odia il suo lavoro, sta per morire di cancro, ha un figlio malato e un altro in arrivo. Io non ho il cancro, non ho quella malattia, non odio il mio lavoro perché non ce l’ho da anni, ho due bimbe bellissime, Marta e Flavia, che sono in piena salute. Niente amfetamine da cucinare per me. A parte il brodo e il purè, io preparo solo il pane in questo momento, ma una cosa ci accomuna, a me e al tipo della serie: entrambi amiamo la nostra famiglia, sopra ogni altra cosa, e facciamo tutto per loro.
A questo punto mi tocca scendere dalla sedia e dare un taglio alla mia recita. Controllo la temperatura del forno. Incollo gli occhi al suo ventre caldo e, come una bambina, mi incanto inebetita alla sua lucina bianca che mi scalda. Anche se siamo all’inizio di aprile, in questi giorni c’è un freddo immobilizzante. Il riscaldamento è spento e il timer è nell’altra stanza. Ci siamo, il pane si sta dorando, ci vorranno circa venti minuti ancora. Il suo profumo copre gli altri odoracci che qui dentro non vorrei più sentire. Il pane mi consola. Per fortuna Giorgio è stato bravissimo e ha trovato gli ultimi lieviti ancora disponibili negli scaffali di un piccolo negozio sotto casa. Ci è riuscito lottando e litigando un po’, per la verità, e dando qualche spintone. Così mi ha raccontato l’altro giorno, fiero. Papà non voleva che lo sposassi.
Comunque, ho anche preparato il lievito madre. Quello praticamente è una riserva inesauribile. Il pane mi consola. Di fame non moriremo. Non sarà la fame a uccidermi. Mi rimetto all’opera per il pranzo, le bambine saranno sicuramente affamate. Non sento le loro risatine stridule, devono essere in camera da letto, ognuna con le sue cuffiette e il suo pc, isolate per fortuna da questo mondo. Cercano di imparare un nuovo modo di imparare. Posso comunque recitare le mie poesie a bassa voce, in quella maniera non do fastidio a nessuno. Se ci penso, mi viene da ridere e me lo posso permettere, perché oggi la costola mi fa meno male. Adesso, anche se tossisco, non sento quello strappo lacerante delle settimane scorse.
Morire, dormire. Dormire, forse sognare.
Ora che l’ultima patata è stata pelata, preparo la pentola per bollire l’acqua. E sussurro quella bella poesia che ci insegnò la prof di inglese al liceo. Così il mio tempo passa.
“…due strade divergevano in un bosco, e io, io presi la meno percorsa, e quello ha fatto tutta la differenza.”
Papà non voleva che lo sposassi. Poverino Giorgio, mica è colpa sua. A volte, devo ammettere, io sono proprio insopportabile.
L’enorme latta da venti chili di vernice gialla, che abbiamo usato per imbiancare le pareti, mi osserva. Non l’abbiamo ancora tolta. Sta lì, solitaria, a guardarmi, in disparte in un angolo della stanza. Ora che lo spettacolo è stato interrotto per la pioggia di improperi di Giorgio, è triste e non sa cosa fare. Pensa di non avere un ruolo, un senso. E invece non sa di averne uno molto importante.
Mi stufo presto della mia poesia e allora comincio a canticchiare una canzone che mi frulla da ore nella testa, credo che il titolo sia Colpo di pistola di un certo Brunori, l’ascolta spesso Marta. Ma dimentico in fretta le parole. D’istinto cerco il telefonino per trovarla su YouTube. Non lo vedo, eppure ero convinta di averlo posato tra il sedano e la cipolla bianca. Controllo nelle tasche del grembiule. Niente. Mi assicuro che non mi sia caduto vicino all’enorme latta di vernice gialla, l’ultima volta che ci sono andata. Neanche là. Mi giro verso il frigorifero, forse l’ho lasciato lì sopra in bilico. Mi specchio nel suo riflesso d’argento e allora la mia immagine mi ricorda tutto: è da giorni che il mio telefonino è spento nell’altra stanza. Ci mancava solo la cistite, mi perseguita da ore. Faccio finta che stia succedendo a qualcun altro.
Senza rendermene conto, ho cantato di nuovo ad alta voce. Intuisco che Giorgio si alza dal divano e si avvicina alla mia porta.
Morire, dormire…nient’altro.
Lui deve avere interrotto la sua puntata sul più bello, per causa mia. Sento che bestemmia. Spero sia solo fame. Giorgio e le bambine sono sempre affamati: il cibo glielo passo dalla porticina che usava il mio gatto finché Giorgio lo ha sopportato. Io, per la pipì e il resto, sto usando la latta di vernice gialla.
Fausto nasce nel 1975 in Calabria. Oggi vive a Modena. Dopo il liceo classico sceglie la chimica e il marketing. Poi l’amore per le lettere ritorna ed eccolo qui, a inventare storie per urgenza. Ha pubblicato i racconti Mutila! con gli Editori Modenesi, Lo stupido di turno su Il timoniere, Non rimaneva mai solo con Emuse, L’appuntamento con la vedova su Crack, La prefica con Silele edizioni, La Linea Verde su L’irrequieto. È in fase di pubblicazione con il romanzo Il mandriano con Bookabook. Viaggia, suona la chitarra, scrive racconti e canzoni, beve e cucina.
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