“La mente è un luogo appartato”. Diario pubblico di una star del cinema
“Mi chiedo spesso che cosa resterà della mia carriera, se gli spettatori riusciranno a valutarla nel suo insieme o se si concentreranno su un ruolo specifico. Allo stesso tempo sono consapevole del privilegio che mi è immeritatamente toccato: quello di contribuire alla costruzione dell’immaginario collettivo, di archetipi umani con i quali la gente si è commossa, divertita, emozionata.”
Vittorio Poggi è un attore cinematografico e teatrale, ha attraversato tutte le decadi che contano del cinema italiano, ha vissuto il neorealismo e il periodo del cinema artigianale e fantastico, quando in Italia ancora si provava a giocare coi generi. I suoi film sono stati distribuiti a Cannes, a Venezia, hanno valicato i confini dell’oceano e gli hanno guadagnato nomination agli Oscar. È uno dei pochi attori italiani che frequentano stabilmente le cinematografie straniere e il cui nome dica qualcosa anche all’estero.
Ora, se state leggendo queste pagine, le possibili reazioni sono due: o siete andati a cercare il nome di Vittorio Poggi su Wikipedia, oppure sapete già di cosa stiamo parlando. In quest’ultimo caso, non crediate di averla scampata, perché con ogni probabilità siete caduti anche voi nell’inganno de La mente è un luogo appartato.
Un’opera di finzione verosimile
In inglese la chiamano fiction, in italiano traduciamo malamente con finzione: qualunque opera narrativa che sia frutto d’immaginazione o di libera rielaborazione rientra in questa categoria. Quando iniziamo un romanzo sappiamo perfettamente di avere tra le mani una storia (quasi sempre) d’invenzione – fiction, appunto – e non ce ne rammarichiamo mica. Questa volta, invece, il tranello è plurimo: non solo perché la vita di Vittorio Poggi è incredibilmente verosimile, e non ci vuole una grossa memoria storica e culturale per cascarci, ma anche perché ci si svela in sembianza di diario. La forma della confessione per eccellenza. Della testimonianza. Della verità.
Il romanzo di Davide Mazzocco, La mente è un luogo appartato (Alessandro Polidoro Editore, 2022), ripercorre l’esistenza privata e la carriera di un attore che, se fosse esistito, avrebbe probabilmente la sua stella sulla Walk of Fame. Chi leggesse di Vittorio Poggi potrebbe ripercorrere idealmente tutta la storia del nostro cinema. Ci si potrebbe vedere lo spettro di Vittorio Gassman, di Ugo Tognazzi, di Gian Maria Volonté. Qualcuno ci potrebbe vedere il fascino e l’indolenza di Marcello Mastroianni, qualcun altro ancora la carriera di un attore francese come Jean-Paul Belmondo. Molto più probabilmente, Vittorio Poggi è una somma di tutti questi e altri ancora. La sua è una figura multistrato, che si compone di ricordi pop(olari) e immaginari collettivi ampissimi – l’equivalente letterario del latin lover di Cristina Comencini, e non soltanto per l’aspetto pubblico della sua vita.
Cronaca di pubblici successi e fallimenti privati
“Sono stato un marito infedele, assente, scarsamente premuroso e attento: ho fallito. Sono stato un marito fedele, presente, attento e premuroso: ho fallito. In entrambi i casi sono stato me stesso.”
Mentre la sua carriera procede a grandi balzi, alternando successi di critica a successi commerciali, nel privato Vittorio Poggi non può dirsi altrettanto brillante. Se mettessimo insieme tutte le donne della sua vita ne otterremmo un mosaico di perfezione: Geneviève è materna e rassicurante, Meredith è esplosiva e stimolante, quella è dolce e comprensiva, quell’altra ancora è sensuale ed eccitante. Ogni volta che chiude un capitolo e trova una nuova amante, si direbbe che sia quella giusta. E invece, ogni volta finisce senza che lui lo desideri, costringendolo a trovarne un’altra che gli faccia dimenticare la precedente.
Con le figlie non gli va meglio. La sua prole tutta al femminile sembra confinata in un ruolo secondario, da non protagonista. Sono echi lontani di sagome non ben delineate, segnate dalla lontananza, con cui intrattiene scambi epistolari via e-mail e che alla fin fine non conosce veramente. Le sue figlie sono per lui salvifiche, ma i fallimenti accumulati come amante e marito si accompagnano a quelli conquistati come padre. Si direbbe quasi che Poggi, in questo diario, abbia accumulato materiale inerente alla sua carriera d’attore per compensare gli insuccessi susseguitisi nella sfera personale.
Confessioni (e non solo) di un attore
Quel diario che è La mente è un luogo appartato non è fatto soltanto di rimembranze ed elucubrazioni; più che altro, è una raccolta di componenti eterogenei, in cui finiscono anche stralci di sceneggiature e interviste. Poggi lo definisce materiale per la sua vanità. Si avverte un intento compensativo, oltre che auto-lusinghiero, dietro tutto questo. Dopotutto è ancora lui stesso a dire che «la recitazione è un elemento liquido che colma tutti i vuoti della mia esistenza».
È uno specchio della sua esistenza, che ha bisogno di lustrare quanto più a fondo per ammirarcisi dentro, e al tempo stesso della sua coscienza, a cui Poggi non può sfuggire: dopotutto, non è mai stato bugiardo con sé stesso. Forse è per questo che a un certo punto, il 22 marzo 1992, rifiuta di portarlo avanti («Non credo scriverò ancora su questo diario. È tempo sottratto alla vita»), perché questo specchio sulle sue colpe e le irragionevolezze è diventato fin troppo severo da sopportare.
La voce dell’autore
Se c’è una particolarità però, in questo diario, non è tanto questo suo formarsi per accostamenti di documenti destinati in origine a canali diversi. No, piuttosto è la sua ingannevolezza: oltre che per le ragioni di cui sopra, anche perché non procede in ordine cronologico. A una pagina scritta il 4 ottobre del 2006 potrebbe succederne un’altra risalente al 28 aprile 1956. Quale razza di diario è scritto così? Dietro la sua costruzione sbuca il progetto artistico dell’autore, che incasella una memoria dopo l’altra in ordine solo apparentemente casuale. La vita dell’attore ci si svela quasi subito anche nei suoi ultimi anni, per poi ritornare agli inizi, dove tutto è cominciato, quando Vittorio Poggi è diventato Vittorio Poggi, in una sorta di continui flashback e flashforward cinematografici.
È l’unico squarcio in cui si intraveda la presenza dell’autore, che per il resto non toglie parola al suo protagonista: è sua l’unica voce a parlare in questo diario-romanzo, con il suo stile riconoscibilissimo, i suoi modi compiti e la sua eleganza d’altri tempi, dei grandi signori del teatro, degli uomini che hanno vissuto da dentro il tessuto sociale e culturale presente e passato e hanno contribuito a stracciarlo e ritesserlo daccapo. Non è un caso, perciò, che questo diario rifletta anche lo spirito dei suoi anni («Il Paese è reazionario, intimamente fascista e insindacabilmente machista. La Chiesa Cattolica rallenta tutto, ma presto o tardi il passato verrà travolto») pur restando profondamente soggettivo. Il ritratto di un uomo egoista, solo, schivo ma anche vanesio, colto, perbene. Insomma, un diario, pure se intimamente falso. Ma nel tempo che ci si concede a leggerlo, come fare a non crederci?
Andrea Vitale