I film da riscoprire: Gonne al bivio
Per il mese di giugno, che è, come ogni anno, il pride month per eccellenza, avevamo pensato di offrirvi una carrellata di film a tematica LGBTQ+ per la nostra rubrica. Poi, spulciando tra i vari titoli, ce n’è saltato uno all’occhio, che ci è parso un gioiellino da recuperare.
Già il titolo è tutto un programma: But I’m a Cheerleader, storpiato in italiano, come spesso succede, in un altro titolo senza altrettanta efficacia evocativa. Da noi infatti è diventato Gonne al bivio, con quel retrogusto che fa comico adolescenziale un po’ American Pie e che non ne coglie completamente il senso. Il film, diretto da Jamie Babbit e scritto insieme a Brian Wayne Peterson, non ebbe grande impatto sul pubblico alla sua uscita nel 1999, e la critica non lo accolse molto positivamente. Nel tempo, però, è stato in grado di scavarsi la sua galleria sotterranea, fino a guadagnarsi lo status di cult minore. Negli Stati Uniti, perlomeno, dove per la comunità LGBTQ+ è una piccola perla e i cinefili lo ricorderanno come un fenomeno culturale – dal 2005 va in scena a New York e a Londra l’adattamento teatrale e da qualche anno si parla di una trasposizione televisiva. In Italia, invece, è difficilissimo da trovare. Come fare a recuperarlo, vi chiederete voi? Beh, cominciate a segnarvi il nome. Intanto, noi ve ne parliamo.
Una cheerleader in terapia di conversione
Megan (Natasha Lyonne, nota per Russian Doll) è la tipica adolescente da copertina che tanta serialità made in usa ci ha raccontato: ha un aspetto grazioso, è una cheerleader (appunto) e il suo fidanzato gioca nella squadra di football. Peccato, però, che a Megan non piaccia affatto baciarlo, e per sopportare lo strazio della sua lingua ricorre con la mente alle sue compagne di squadra. Ah, e nella sua stanza tiene appeso un poster di Melissa Etheridge, cantante americana notoriamente lesbica. Tutto normale, no? No. Almeno, non per i genitori di Megan, devoti al ferreo ideale cristiano della coppia uomo+donna, e nemmeno per i suoi amici o il suo fidanzato. Megan viene spedita in un centro di recupero, una sorta di riformatorio chiamato True Directions e diretto dalla bacchettona Mary (nome che non ci sembra affatto scelto a caso). Si tratta di un campo dedito alla terapia di conversione per omosessuali attraverso un programma in cinque passi. Il primo di questi consiste nell’ammettere di avere un problema: e cioè di essere omosessuale.
Riconoscere il problema
Il fatto interessante che si può constatare già qui è che Megan pensi di essere una personale normale, come tutte le altre. Non solo non sa di essere omosessuale ma, in senso più ampio, non sa neanche di avere un problema, finché non la costringono a etichettarsi. Ad autodefinirsi, cioè, secondo parametri socialmente riconosciuti: eterosessuale e omosessuale, i buoni e i cattivi. Attraverso la stigmatizzazione nominale e la demarcazione di una presunta diversità dalla norma si arriva alla definizione del problema che è, in realtà, la creazione del problema stesso. A ogni modo, è qui che comincia il bello: perché il programma in cinque passi di Mary si rivelerà una farsa totale. Non solo non dà alcun risultato, ma ignora ottusamente ciò che è evidente agli occhi: e cioè che gli alunni del campus non saranno mai altro da ciò che sono.
Cliché alla berlina
È a partire da questo fallace programma di rieducazione sessuale che Gonne al bivio si prende gioco dei cliché con cui pretendiamo di costruire le identità di genere. In questo Boy Erased in chiave comica, i ragazze e le ragazze vivono in una casa che sembra uscita da un film degli anni Sessanta, i primi costretti a indossare un’uniforme azzurra e le seconde una in rosa. Da parte sua, Mary assomiglia alla copia spiccicata di una casalinga di Stepford, precursore di quel concentrato di follia che sarà Glenn Close in La donna perfetta. E proprio come nell’utopica società idealizzata da La fabbrica delle mogli, ai ragazzi vengono insegnate mansioni che in un immaginario retrogrado sono prettamente maschili (come tagliare la legna e riparare la macchina) e le ragazze vengono invece impegnate nelle faccende domestiche. In un crescendo di gustosa stupidità, il programma termina con una simulazione dell’atto sessuale tra gli allievi, agghindati come novelli Adamo ed Eva.
La verità è che più che essere una disamina sulla scoperta e l’accettazione della propria (omo)sessualità, Gonne al bivio è soprattutto una satira sul ruolo e la figura della donna. Alle ragazze del campo viene insegnato a comportarsi secondo schemi che ricordano le sit-com americane in bianco e nero, in cui la moglie accoglie il marito di ritorno dal lavoro con un bel tacchino appena sfornato. Tutto l’immaginario estetico attorno al quale ruota il microcosmo di True Directions è rimasto fermo nel tempo, agli anni in cui la donna era dipinta come perfetta madre di famiglia, con un sorriso stampato in volto e un grembiule a portata di mano, non sia mai ci sia una cena da preparare. Senza accorgersi, in realtà, della contraddizione nascosta dietro la facciata.
Lezioni di estetica
Non c’è, infatti, una grande attenzione all’aspetto estetico degli allievi maschi, mentre le ragazze vengono costrette a una radicale trasformazione finale nel trucco, nell’abbigliamento e nei capelli. Come se un cambio di look testimoniasse anche un cambiamento interiore. Stranamente, l’ideale di donna propugnato da Mary e dal suo programma trova già espressione, fin dall’inizio, in Megan. Questa non ha nulla, nell’aspetto, che assomigli a una liceale degli anni Novanta e alle sue compagne di scuola, con la sua messa in piega impeccabile e così vecchio stampo. Ciononostante, è una donna lesbica. Lei stessa adduce come prova a fondamento della propria eterosessualità il fatto di essere una cheerleader (da cui il titolo): com’è possibile che una ragazza come lei non sia etero? E invece è possibile eccome, tanto quanto il fatto che Rock, il figlio di Mary, sia un omosessuale sotto mentite spoglie, a cominciare già dal nome (Rock Hudson vi dice niente?). E così via, in un miscuglio di confusioni, agnizioni e negazioni in cui la satira si estende ben oltre la dimensione diegetica – RuPaul per esempio interpreta Mike, un ex-gay ora nello staff di True Directions.
La satira prima di tutto
Gonne al bivio è sicuramente più apprezzabile per gli intenti parodistici che per quelli didascalici. Un messaggio comunque c’è, nell’invito a essere sé stessi senza paura, ma è sicuramente meno originale. Soprattutto se considerato come auspicio generale e non in relazione specificamente al ruolo della donna, etero o meno che sia. Quello che lo rende più interessante, invece, oltre al suo manifesto femminista, è proprio il tentativo di trattare coi toni della commedia un ambito narrativo solitamente destinato al filone drammatico. Non un capolavoro di regia, ma un esperimento coraggioso, questo sì. E, a oggi, anche piuttosto isolato.
Gonne al bivio è attualmente disponibile sulla piattaforma MUBI.
Andrea Vitale