Lotta, mutilazioni, lasagne. Su “Bianca” di Barbara Giuliani
Bianca di Barbara Giuliani (Neo Edizioni, 2022) è un libro di poesia che non risponde a ciò che comunemente (o banalmente) si intende per poesia, e lo fa soprattutto attraverso questi tre strumenti: l’accrescersi o il disordinarsi della struttura testuale; il massiccio ricorso all’ironia e alla desacralizzazione; un certo orizzonte collettivo, di condivisa marginalizzazione o rivalsa.
Il testo che accade
Visto lo stile molto personale e centrato di Giuliani, è bene cominciare dalle principali caratteristiche tecniche della sua scrittura. Leggendo Bianca la prima cosa che viene all’attenzione – da un punto di vista stilistico – è la tendenza dell’autrice a vivere il testo poetico non tanto come unità formale (e di senso) quanto come spazio “performativo”. Voglio dire, insomma, che la scrittura di Giuliani pare scoprire la propria ragione man mano che si fa; non la pone a monte o a presupposto del testo. Spie di ciò sono l’impostazione spesso colloquiale (fin dal lessico: «polpettone», «pisciare», «i calzini sono sporchi»…) e/o allocutorio («posso portarti», «credimi», «tu?»…), ma soprattutto quei momenti in cui il testo sembra aderire al tempo della lettura e “verificarsi” con la sua esperienza. Ne sono esempi il countdown da «sessanta» a «dieci» di p. 87, o il «TUTU» che simula il suono del telefono e riempie, ripetendosi, l’intera p. 36.
Se a questi passaggi, quasi installativi, aggiungiamo altri elementi ricorrenti – come i loop (pp. 81-82), l’oscillazione continua tra verso brevissimo e lunghissimo, la moltiplicazione strofica, la tendenza al testo lungo, l’abolizione di maiuscole e quindi di una gerarchia ortografica, la presa diretta dell’indicativo presente o del passato prossimo («esco dal bagno e corro verso la cucina, / prendo un pentolino e butto dentro questa pallina»), alcune sottolineature meta-testuali/programmatiche («parlerò di camilla. / camilla è bellissima / camilla ha i capelli rossi ricci di esplosivo»), alcune commistioni con la prosa – otteniamo un armamentario stilistico che ci dà proprio la sensazione di assistere allo svolgimento del testo, più che di accedere alla compiutezza di un manufatto. Con l’effetto, perciò, di disorientare il lettore ma anche di spalancargli un percorso radiale, felicemente inconcluso (e “inconcluse” sono spesso le chiuse, antisentenziose: «la vuoi vedere la mia collezione di farfalle?», «la prossima volta ci lasciamo per telefono», «consumare previa cottura»).
Ironia e materia
Tale accadimento, che in un certo senso smaschera (o almeno evoca) l’in fieri del testo, ben si accorda con il tono spesso ironico delle poesie. Anzi, in alcuni casi è proprio la “performatività” della scrittura a innescare i meccanismi ironici, come accade con il loop di p. 15: «mi manca il baccalà, non / vorrei altro che baccalà, / baccalà / baccalà / baccalà / baccalà / baccalà / pagine intere di baccalà, / stramilioni di quintali di baccalà». Si tratta di una modalità, dunque, che mette insieme la forza desacralizzante dell’ironia e una certa concezione “materialistica” del suono, che ritroviamo del resto in altri strumenti cari a Giuliani, come i giochi lessicali o fonetici: «è sottile il viso del tuo velo / o il velo del tuo viso è sottile / o viso del tuo velo / il velo del tuo viso / sottile / ile / ovile».
Gli scenari di Bianca sono d’altronde scenari comuni, quotidiani, di cui si mostrano –attraverso l’ironia, appunto – piccoli-grandi sfasamenti, una sproporzione insormontabile tra prove di teoresi e abbondanza della materia. Così, solo guardando i titoli, troviamo paolo ha ventisette anni, è uno studente fuori corso, oppure la teoria della padella per le castagne, o ancora hai mai mangiato il satirione a luglio?. Da questi sfasamenti del quotidiano, poi, si scopre una condizione comune, contraddittoria e opprimente, se non degradata, che anche se quasi mai viene additata esplicitamente, pervade in verità l’intero spirito del libro.
Mutilazioni
Non è un caso, allora, che Bianca mostri un continuo, quasi rabelaisiano, tornare sul cibo: oltre ai citati «baccalà» e castagne, troviamo «carboidrati», «scampi», «grissini», «pane» «tè», «birra», «lasagna», «rape»… Quello del cibo (e, più precisamente, del procacciamento del cibo, cioè della spesa e della cucina) è un tema cardine perché riesce a intrecciare tutte le direttrici fondamentali del libro: il pragmatismo che mette il soggetto all’interno di un mondo incarnato e “popolato” («lavandino / asse da stiro / mouse / semaforo / parcheggio / glutine / lattosio / emicrania / trippa / prezzemolo»); l’attività compulsiva degli uomini ridotti a consumatori; la quotidianità e l’ironia abbassanti; la conformazione del desiderio umano, che non raggiunge, per Giuliani, vette platoniche o astratte, bensì guarda a corto raggio, perché mutilato, anche, o almeno perché sorgente da condizioni reali e materiali, dunque limitanti e necessitanti.
È qui, in fin dei conti, che si annida la carica anche politica di questo libro. Bianca, pur intitolato a una sola persona – il cui nome evoca però una diffusione, come il colore bianco, che genera pienezza e vuoto insieme – è un libro con orizzonte decisamente collettivo: «siamo» è la prima parola che si legge; un tentativo di definizione (metaforica) che ricorre nell’opera, con scopo di nominare una generale, dunque sociale, condizione di marginalità («siamo la spesa del sabato mattina», «siamo il water dimenticato sporco per eccesso di lavoro», «siamo un concerto sotto la pioggia e un silenzio al tavolo», «siamo una posologia, delle cose messe»). E se uniamo la performatività di cui sopra con questo taglio politico “nomenclatorio” (conseguenza evidente di un’incapacità di definirsi come collettività) cogliamo anche l’altro polo cui Giuliani fa riferimento, cioè quello della musica, e in particolare delle Luci della centrale elettrica (citate infatti due volte).
Come in Canzoni da spiaggia deturpata, insomma, ciò che preoccupa Giuliani è il sollevare il velo di Maya su una collettività che lotta fra la volontà di essere tale e il proprio dissesto. Che la poesia di Bianca guardi all’indie – performativo nei modi (in quanto musica) e sociale nei temi – è in primis l’apertura a un’interrogazione politica («tutti impegnati a fare cosa?», come si legge nella postfazione di Lorenzo Kruger, curiosamente scritta in versi) e poi a un’interrogazione poetica: su cosa faccia la poesia nel mondo materiale, a cosa serva, se non ci sia bisogno di una sua ridefinizione estetica per schiuderla davvero al reale.
Antonio Francesco Perozzi