Racconto Milleuno
Call
Nelle fughe delle mattonelle del cortile cresceva il muschio e in qualche punto era scivoloso, soprattutto se avevi le suole consumate. Gianmaria Santonastaso sudava nei suoi pantaloncini sintetici, con l’elastico che gli strozzava i fianchi. Quando correva, la massa d’adipe faceva su e giù.
«Fammi toccare le zizze», gli diceva Vincenzino Fusco. E tutti a ridere.
E lui sudava. Quanto sudava! Il sudore stantio nelle pieghe del grasso. Correva e sudava. Così tanto che la schiena era un’unica macchia scura sulla maglia tarocca della nazionale. E le volte – poche – che gli passavano la palla, lui ci andava in controtempo e se la vedeva scorrere alle spalle.
«Mannaggia la puttana, Gianmarì, ma sei una merda!»
E mangiava. Sudava e mangiava. I residui di crema alla nocciola agli angoli della bocca. Le dita nel barattolo. La sedia di paglia che scricchiolava penosamente mentre allungava il braccio verso il ripiano più alto della credenza. La pancia che sgusciava fuori: le smagliature, l’ombelico oblungo.
E quando andavano in piscina, al campo estivo, si teneva la maglietta fino a che poteva.
Tutti si tuffavano dal bordo.
«No, tu no che se ti tuffi svuoti la piscina.»
Così Gianmaria Santonastaso, raccolto il coraggio, si toglieva la maglietta e si calava giù piano piano, dove l’acqua era più bassa, da seduto, con tutta la delicatezza di cui era capace; la retìna che lo irritava, il costume che gli scivolava un poco sotto al coccige, lasciandogli appena scoperta la base del culo; e Vincenzino Fusco da dietro che gli infilava le dita nello spacco. E tutti che ridevano. E il silicone della cuffia che gli premeva forte sulle tempie, e Vincenzino che gli grugniva in faccia: «Sei un maiale, Gianmarì. Sei una palla di merda.»
I corpi degli altri erano sottili. Lui invece occupava così tanto spazio. Davanti allo specchio, tirava la pancia indentro e tratteneva il fiato per farsi spuntare un principio di costole. Pensava a Vincenzino: gli spigoli aguzzi delle ossa, le vertebre, le clavicole, le scapole. Lui, invece, un’unica linea liscia che inglobava tutte le cartilagini. La pelle bianca e porosa chiazzata di impetigini. La desolazione molliccia dell’ombelico, che era un taglio orizzontale e non un bottoncino che sporgeva, come invece quello di Vincenzino Fusco.
A cena guardava suo padre, che aveva la sua stessa forma e ruminava rumoroso il bolo di spaghetti. La testa nel piatto, le labbra unticce. E si puliva la bocca con lo stesso fazzoletto con cui si asciugava il sudore. E qualche volta, poi, magari, ci lustrava pure la forchetta.
E lui masticava. E il padre masticava. E la madre diceva: «Basta pane, Gianmarì», mentre inzuppava ancora un altro pezzo di mollica nel guazzetto d’olio.
Il giorno del suo undicesimo compleanno, Vincenzino Fusco si era presentato a casa con la camicia stirata e i capelli impiastricciati di gel. Gli aveva allungato un pacchetto rotondo incartato male.
La madre lo aveva aiutato a scartocciarlo: un salvadanaio di ceramica a forma di maiale.
«Hai visto che bello!», aveva detto sua madre senza capire: «Così puoi conservare i risparmi.»
Da adolescenti, gli altri incominciavano a scopare. Pure Vincenzino Fusco. Si diceva che Marisa Iavarone glielo avesse preso in bocca nel bagno della scuola. Non ci poteva credere, Gianmaria: lui su Marisa Iavarone si faceva seghe di continuo.
Anni dopo, alla clinica, sembrava che tutti andassero di fretta: dottori, infermieri. Il corridoio del reparto di chirurgia bariatrica era un lungo susseguirsi di porte davanti a una fila di sedie blu. Il linoleum azzurro e lucido rifletteva la luce bianca dei tubi al led. Gianmaria si sfregava i palmi sudati. Sua madre sfogliava un rotocalco vecchio di qualche settimana.
«Avanti», aveva detto la voce dallo studio.
Il dottore sorrideva affabile dietro gli occhiali.
«Dotto’, spiegatemi bene, fatemi la cortesia», aveva iniziato sua madre, torturando la borsetta appoggiata in grembo.
Il dottore aveva preso a disegnare qualcosa, poi aveva girato il foglio verso di loro.
Ecco qui. Funzionava in questo modo. Questo è quello che avrebbero fatto: era una semplice questione meccanica.
Bisognava creare una piccola tasca gastrica, applicando allo stomaco una fascia di silicone. L’intervento era poco invasivo, un paio di giorni e sarebbe tornato a casa.
Il giorno dell’intervento, l’anestesista aveva detto: «Conta fino a dieci». Era arrivato a sette, quando tutto era stato ingoiato dalla macchia di luce della lampada scialitica. Mentre le sagome dei dottori sfocavano, si era materializzato Vincenzino: le gambe penzoloni nell’acqua, le scapole appuntite, l’ombelico sporgente.
Cinquanta chili in tre mesi.
Si era abituato presto a sorbire il caffè amaro, a pesare il pane .
Ora il residuo del vecchio corpo resisteva solo nella forma dei fianchi appena troppo larghi, nel taglio orizzontale dell’ombelico oblungo.
Continuava a tenere la maglietta in piscina, a muoversi impacciato come uno che ha paura di urtare le cose che ha intorno. A rannicchiarsi per ridurre l’ingombro.
Una sera, sua madre entrò in cucina sventolando una lettera. L’invito al matrimonio di Vincenzo Fusco e Marisa Iavarone.
Al ricevimento, gli ex compagni stentavano a riconoscerlo. Sembrava un altro, stava benissimo.
La festa declinava, sposi e invitati già sonnacchiosi e alticci, quando Gianmaria aveva agganciato Vincenzino Fusco, trascinandolo sottobraccio fino al guardaroba.
«Ma dove andiamo, Gianmarì?»
«Solo un secondo, Vincenzì, ti voglio dare il mio regalo.»
«Mi fa proprio piacere che sei venuto, lo sai?», aveva detto all’improvviso Vincenzino, riscaldato dall’alcool, dissipando finalmente un sordo senso di colpa. Gianmaria aveva sorriso. Poi si era voltato e si era messo a frugare dietro le grucce.
Il viso di Vincenzino s’era congestionato in un’espressione di sorpresa e disagio.
Fra le mani di Gianmaria, il maiale di ceramica. D’un tratto lo aveva lasciato cadere a terra.
Vincenzino Fusco, confuso, incazzato nero, aveva attaccato a dire: «Gianmarì, ma che cazzo…», quando all’improvviso un lampo.
Niente dolore.
Solo un caldo appiccicoso e istantaneo colargli giù dal collo, mentre Gianmaria Santonastaso, le labbra serrate e gli occhi strabuzzati, già tornava a infierire con la scheggia di ceramica appena raccolta da terra. Ancora. E ancora.
«Sei un maiale Gianmarì. Sei una palla di merda».
Raffaele Ospite è nato a Caserta nel 1995. Ha studiato Lettere Moderne a Napoli, poi si è specializzato a Bologna. Dopo aver lavorato saltuariamente come insegnante, ha preso parte al master Arti del Racconto della IULM, a Milano. Al momento sta per iniziare un tirocinio a Roma presso la casa di produzione Fandango.
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