Punti di fuga di Alessio Paiano – che è tornato quest’anno in libreria con un denso lavoro su C. B. (Dentro ‘l mal de fiori. Il poema impossibile di Carmelo Bene, Kurumuny, 2022) – è un libro visionario e progettuale assieme. Uscito per Arcipelago Itaca a fine 2021 e accompagnato da una corposa postfazione di Andrea Donaera, Punti di fuga porta la poesia a sfidare i limiti del linguaggio passando attraverso una solida eredità mitica – del fiume e della memoria.
Sogni e sintomi
Possiamo pensare al libro di Paiano come a un viaggio allegorico, a una serie di trionfi simile a quelle medievali: un unico corpus, ma al suo interno una serie di stazioni, che appaiono per certi versi indipendenti, distanti. Punti di fuga è un libro legato (esplicitamente: si pensi ai “raccordi” che troviamo alla fine di alcune sezioni: «Facciamo gironzolare ancora / questo nostro protagonista, / attendiamo che qualcosa accada…»), che però si trasforma radicalmente mentre procede; approda a una fase metalinguistica, curata anche sul piano visivo, partendo da una fase onirica e passando per un’altra più materiale. Dal visionario al visivo, potremmo dire, quindi seguendo un’acquisizione di conoscenza (con il mito che diventa sapere), ma anche un’ipnagogia che diventa immagine, cioè si impoverisce e attesta una mancanza.
La prima parte, “visionaria”, è del resto il presupposto “assente” su cui si fonda l’intero libro: qualcosa di monco è posto all’inizio – come per il fiume (immagine fondamentale dell’opera), che nasconde la sua origine. Non è un caso quindi che proprio questa sezione, Cronache cittadine (una visione), porti un’allusione beniana: l’abbozzo di un poema impossibile, dice il sottotitolo; e infatti questa è la parte più agonistica del libro, in cui la voce che dice io deve confrontarsi con uno sbandamento e una lotta per la comprensione. Siamo a Venezia (città d’acqua: non è un caso neanche questo) e ci si muove tra le immagini della Basilica di San Marco. Le poesie sono intitolate Scena (componente visivo-allegorica) o Cronaca (componente storico-genealogica: «noi creature strane siamo qui per ricordare») o Leggenda (componente mitica) e, partito con la percezione di un’urgenza («siamo spedizioni già in ritardo»), il viaggio del protagonista si compie sovrapponendosi a ignoti ma in certo modo familiari uomini lontani, si conclude con un’ebbrezza («Usciva. Si ritrovò ubriaco tra la folla, / intontito da quel sogno profondo.»), cioè con il sentore di qualcosa di ulteriore (e di frantumato).
Acque
Da questa fase amniotica, in cui subito gli è imposto un essere anche altro rispetto a sé, il soggetto non può quindi che uscire innescato, in cammino (tra le macerie, che sono le macerie del mondo come appare: «La città frantumata», «la città, antico relitto»…), imparentato con l’immagine eraclitea di fiume che diviene. Tra gli aspetti più interessanti del libro c’è però il rifiuto, in certo senso, della “linearità” del fiume. Il soggetto è un essere-gettato nel mondo (la visione di cui sopra è il suo atterraggio), ergo privo di bussole («A noi, viandanti, mezzi ubriachi, non davano speranze / l’aria umida e le serrande chiuse delle strade serpentine: // non scoprivamo vie di fuga ma la confusa allegria / di un regista che diramava le sue folli direzioni»), ad eccezione della bussola più inaffidabile: la scrittura, manipolazione di linguaggio che della parzialità del linguaggio (cfr. ancora C.B.) si assume tutti i rischi («Tu scrivi e inventi una contromisura / che ti destituisca», «scrivi e s’inceppa tutto il discorrere»).
Questo per dire, dunque, che se da una parte il fiume è invocato come salvifico («A te rivolgo, fiume, una mente peregrina / a chiederti il volto di questa poltiglia di tempo»), il linguaggio – i fiumi, con Ungaretti, sono nomi dati all’acqua (o per dirla proprio con Paiano: «Tu sei quel tale che sparge il suo nome nell’acqua») – ne solleva il corso da fatto geomorfologico a traiettoria sovrastorica («Infine abbiamo attraversato i confini della memoria / riavvolgendo l’antica rotta sul filo dell’acqua»). Per questo un fiume – ancora con Ungaretti – è tutti i fiumi, è il Guadalquivir, poi è il Po, l’Hydrus: Paiano a fine libro può chiamare le note ai testiIdrografie, sovrapponendo così scrittura e acque. E se il linguaggio è guardato nella sua ottusità e potenzialità insieme («e non si può dire niente della verità e del mondo / che ci circonda»), la «parola liquefatta» del fiume, giunta dalla visione, dal mito, non può che generare un sogno di regressione-progressione al di là del problema umano: «Ti sommergi in questo tuo trapassato […] …inizio / è regredire la mente alla stasi del bruco / gettare fuori il mondo-palla-sputo / andare oltre la memoria-dolore.»
L’ombra della luce
Posta la matrice mitico-allegoria, e onirica, del progetto alla base de libro, con Backup (sezione a sua volta suddivisa in Periferie, Hydrus e La natura del dolore) il lettore è portato in una dimensione più concreta e quotidiana: «Oggi uscire è una questione di meccanica / anche vestirsi sa di automatismo / ma ti manca l’epopea del quotidiano, / i palazzi, i volti neri della gente.» Ma la concretezza acquisita non esclude il problema del linguaggio e della memoria, e anzi lo amplifica. Innanzitutto Paiano sottolinea la parola “diffusa” in cui siamo ogni giorno immersi, denotando anch’essa come appendice dell’immagine-fiume, sua ennesima incarnazione. Nelle Idrografie infatti si legge che nella sezione Periferie «i due punti a separare le strofe, indica[no] uno stacco che allude alla forma dei post nei vari social network. Il fiume è dunque quello che scorre idealmente attraverso la bacheca Instagram.» Insomma, anche il linguaggio quotidiano (e virtuale) prende la forma di fiume, e cioè di dialettica tra punto fermo e scorrimento, sorgente e foce, qui e altrove, per una logica della traccia, cioè del “qui presente” (o del “qui assente”, diceva C.B.) che rimanda ad altro: «Tutti quelli che se ne sono andati / vogliono dire: il mondo è insufficiente / e ci contiene solo per istanti».
Ma la traccia per eccellenza, con Derrida, è proprio il linguaggio, il testo. E quelli che funzionano di più, in Paiano, sono i momenti in cui questa idea di linguaggio-traccia si ancora a un vissuto materiale. Ad esempio Hydrus, forse la sezione più significativa del libro, trova nel dialetto la forma più efficace per intrecciare il rapporto con la sorgente del fiume (il dialetto come lingua ereditata, in certo senso pre-civile, sicuramente pre-social), la tensione espressionistica tra parola e cosa (sono potentissimi alcuni risultati sonori: «li pedi scasciati», «ma ste cose minate / ca scunnimu sutta li pedi», «Nu scursùne ede sta luce / e se cariscia la cuda friculata») e la meta-riflessione («E mo voju minare tuttu / tuttu stu scorrere rimbambitu de l’acqua / sapire perché aggiu scritte de cose scerrate / ca nu n’è veru, nu n’è veru ca le scerrai»).
Non è un caso, dunque, che la sezione finale, sia allo stesso tempo la più metalinguistica e quella che ci fa capire, come scrive Donaera, «che questo era, alla fine, tutto un libro del dolore». Paiano qui sceglie la prosa (cioè una scrittura orizzontale, più deduttiva, di conclusione di un discorso) oppure poesie (III e IV) che tengono anche alla propria forma visiva, a come appaiono sulla pagina. Dal visionario al visuale, si diceva. E cioè da una mitologia luminosa (e idrica), che trascende verticalmente il soggetto, al riconoscimento oggettivato, “qui presente” di una perdita: «e dunque non esiste un destino ma solo cose che devono accadere, e l’unica cosa da fare è accettare che qualcosa si stacchi con dolore, e quel momento non può essere rimosso perché irrisolvibile, e quando non possiamo risolvere una cosa essa non si dimentica, e allora tutte quelle cose che ricordiamo perfettamente sono irrisolvibili».
Antonio Francesco Perozzi
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