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Altro nulla da segnalare. Intervista a Francesca Valente

Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli di Francesca Valente, pubblicato dalla casa editrice Einaudi nella nuova collana Unici, già vincitore del Premio Calvino 2021, ha recentemente vinto il Premio Campiello Opera Prima 2022.

L’originalità del libro d’esordio di Francesca Valente sta nell’aver instaurato una linea di confine – sempre mobile e indefinita – tra fonte documentaria e scrittura letteraria, tra realtà e finzione. Altro nulla da segnalare è la formula rituale con cui, nei primi anni Ottanta, si chiudevano i rapportini quotidiani degli infermieri del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’Ospedale Mauriziano di Torino, uno dei primi, e rari, esperimenti in Italia di reparto aperto, nato con la promulgazione della Legge 180 che decretò il superamento dei manicomi e il divieto di costruire nuove strutture psichiatriche manicomiali.

Partendo da questi rapportini, che riportano episodi estremamente tragici, comici, e tragicomici, e dai racconti che lo psichiatra del reparto, Luciano Sorrentino, fece all’autrice, Francesca Valente ricostruisce la storia dei pazienti, degli infermieri e dello stesso psichiatra che ebbe il merito di diffondere in Italia e in tutta Europa la rivoluzione basagliana.

Come definiresti la tua opera? 

È un’opera di narrativa che si avvale di documenti e testimonianze. Per costruirla sono partita da elementi di realtà e da tracce concrete, quelle dei rapportini e dei racconti di chi ha vissuto l’epoca di trasformazione di cui si parla nel libro. Ci sono storie inventate, o ricostruite, o storie che rivisitano episodi realmente accaduti con l’immaginazione. Credo che lo scopo fosse quello di trasmettere in maniera più diretta, forse più coinvolgente, l’esperienza straordinaria di quel momento, e meglio suggerire l’umanità del malato psichiatrico e di chi era chiamato a curarlo. Raccontando gli anni tra il 1980 e il 1983/4, si attraversano però anche altre epoche: dagli anni della Seconda guerra mondiale fino ai Novanta. Ci sono “fotografie” della vita manicomiale di chi era stato internato, o della vita all’interno delle comunità ospiti di Grugliasco fino alla fine degli anni Novanta.

I pazienti del reparto di psichiatria hanno veramente abitato nella vita di Luciano Sorrentino fino alla sua morte, avvenuta nel 2019. L’importanza di questo libro sta infatti nel suo farsi testimonianza della storia di vita di moltissimi uomini e moltissime donne che hanno attraversato come infermieri e dottori e abitato come pazienti il reparto di SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e di Cura) dell’Ospedale Mauriziano di Torino. Quant’è stato oneroso e importante il fatto che Sorrentino avesse lasciato proprio a te il compito di raccontare e testimoniare? Il fatto che, se non fosse stato per te e Sorrentino, questi rapportini sarebbero andati perduti per sempre…

Non essendo documenti ufficiali questi rapportini non avevano nessuno spazio negli archivi dell’ospedale, erano destinati al macero. Anche i rapportini sono stati un esperimento di “libertà comunicativa”: erano uno strumento attraverso il quale gli infermieri comunicavano tra loro e con i medici. Senza troppe formalità, ma con una lucidità e una logica spesso ineccepibili. Erano il segno di un rapporto più diretto con il paziente ma anche con i medici, il segno di una sinergia, della presenza costante, del ruolo fondamentale degli infermieri. Senza rigidità, senza i camici addosso, senza targhette col nome sul petto.
Ho cominciato a leggerli senza sapere cosa aspettarmi e certamente senza avere idea di che cosa se ne potesse fare. Mi si è aperto un mondo quasi letterario, per la loro capacità di illustrare in modo diretto e limpido la realtà di allora, di quello spazio e di quel momento: stava lì, in quella ordinarietà, il loro valore straordinario. Erano fotografie che però andavano raccontate, ampliate, con una narrazione che facesse uso della fantasia.
A poco a poco ho capito anche che cosa quel materiale significasse per Sorrentino e per i medici come lui: rappresentavano il cambiamento che era in atto, quell’esperimento che medici e infermieri e assistenti sociali stavano costruendo insieme con un’idea molto precisa in mente: un diverso, nuovo approccio alla psichiatria, al paziente psichiatrico, con cui instaurare un rapporto vero, autentico, basato sulla fiducia.

Repartino, rapportino: perché l’uso di tutti questi diminutivi quando si sta parlando di un momento pieno di grandezza e importanza storica?

Chissà. Forse si sentiva l’urgenza di una parola che oltre a definire uno spazio di piccole dimensioni racchiudesse una tenerezza, un’umanità, che rimandasse al passaggio che c’era stato: dalla grande macchina manicomiale, la fabbrica della follia, gigantesca e fagocitante, si era passati a una dimensione più umana.

Dopo aver esaminato tutti i rapportini – veri e propri documenti ufficiali – quale ritieni che sia il tono che prevale in essi? Uno stile di comicità – molto comico è quando leggiamo che una paziente è uscita in permesso e “per fortuna dice di aver votato PCI” – o di tragicità?

Come dicevo, le tracce sono molto lucide, a fuoco, dirette. In molti casi, sembra però che gli infermieri cercassero di stemperare anche gli eventi più drammatici: ci sono episodi che possono far sorridere, battute folgoranti, o molta ironia, come quella che talvolta si coglie nella chiusura di rito “Altro nulla da segnalare” che seguiva racconti molto movimentati. C’è leggerezza, sovente, nel descrivere momenti di vita nel reparto, c’è tenerezza, umanità e comprensione. Altre volte il tono si fa polemico. È una umanità che racconta un’altra umanità, del resto. E si nota ovunque l’interesse per le storie dei pazienti, per il loro sentire, per il loro mondo. 

Qual è il significato degli uccelli presenti nel titolo del libro e raffigurati sulla copertina del volume?

Il sottotitolo originale era Storie di uccelli: nelle storie che stavo scrivendo ricorrevano spesso le immagini degli uccelli. Liberi, in gabbia anelanti libertà, rari, ordinari, inquieti e inquietanti, misteriosi. Come i “Paz” di cui raccontavo.

Secondo te, oggigiorno, i malati psichiatrici sono ancora ritenuti esseri potenzialmente pericolosi e dunque da rinchiudere in un reparto chiuso, del tutto separato dal mondo abitato dalle persone “nomali”?

L’antica espressione “pericoloso per sé e per gli altri” è una cosa che si sente dire anche oggi. È un’espressione che ancora giustifica o può giustificare l’incarceramento, la prigionia, la segregazione. Ma il punto è sempre questo: che cos’è la follia? Che cos’è da considerarsi normale? Perché fa così paura il diverso, chiunque sia fuori dalle convenzioni? Chi non si adatta o non vuole adattarsi è pericoloso?
Il rischio di creare istituzioni ghettizzanti è sempre vivo: come l’idea che il malato psichiatrico debba essere istituzionalizzato, chiuso in attesa di guarire ed essere restituito alla società oppure trattenuto per sempre perché “irrecuperabile”. Ma forse il fatto che molti di noi abbiano vissuto negli ultimi due anni un’esperienza tanto traumatica come quella della pandemia e abbiamo conosciuto o visto aggravarsi il disagio psichico può aver contribuito a una maggiore consapevolezza e a una più concreta accettazione della “natura democratica” della malattia mentale.

Come risponderebbe oggi Sorrentino a quel medico che, in un incontro al liceo, gli aveva detto che, per essere un buon psichiatra, non era necessario “cercare di conoscere l’essenza dell’essere umano attraverso la filosofia, l’antropologia, la storia”? La medicina è filosofia, conoscenza e cura dell’uomo?

Chissà. Forse si limiterebbe a ridere sotto i baffi come faceva spesso. Sapeva essere tranchant, con la sua pacatezza e la sua fermezza, e sapeva anche essere duro – nel senso più intelligente e costruttivo del termine – quando necessario. Era un uomo molto determinato, sapeva benissimo cosa era giusto e cosa era sbagliato. Infatti, quell’idea lì che aveva da ragazzo non lo abbandonò più: lui sapeva che all’essere umano en panne ci si doveva avvicinare mettendo in campo altre discipline, altri strumenti, oltre alla medicina.


Francesca Valente, nata ad Asti nel 1974, abita attualmente a Torino. Per molti anni è stata traduttrice dall’inglese, dal francese e dal giapponese per case editrici e studi di animazione italiani e internazionali. Dal 2015 lavora come copywriter. Ha studiato giapponese a Ca’ Foscari di Venezia e Arte Contemporanea all’UCLA (University of California, Los Angeles) ed è vissuta in Giappone. Ha scritto il libro per bambini Il miele. Tutti i segreti delle api (Slow Food Editore, 2010).

Intervista a cura di Beatrice Sciarrillo

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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