Antonio Esposito: Facciamo una ricognizione. L’ultima volta, in merito a La memoria dell’uguale, ci siamo ritrovati a discutere di narrativa mettendo a fuoco temi quali il “limite”, la “morte” e il “gioco”. In particolare si era parlato di come queste tematiche animassero il movimento all’interno dei tuoi racconti. Ora, dopo qualche tempo, mi ritrovo tra le mani una tua raccolta di saggi (Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo, Mucchi) e noto che quei temi ritornano, sistematizzati, recuperati e riportati a un universo narrativo altro dal tuo; uno spostamento che, piuttosto che allontanare, vira verso una più profonda consapevolezza della tua esperienza narrativa. Però, prima di addentrarci nella nostra conversazione, preliminarmente, vorrei chiederti da dove deriva la scelta di modulare i tuoi scritti tra serio e faceto o, come tu scrivi, «tra speculativo e satiresco». Una provocazione, ma credo fertile di suggestioni.
Alfredo Zucchi: Non c’era alternativa, Antonio, al fare dei miei limiti l’oggetto e il tema della mia ricerca – questo però l’ho capito verso la fine. Il processo di solito è ingarbugliato, solo dopo averlo sciolto le cose cominciano a mettersi in ordine (dove c’era un calderoneinstabileappare la linea retta che unisce, ad esempio, due idee). Detto questo, tematizzare i propri limiti, dunque mettere a nudo la finitezza (delle proprie risorse, delle conoscenze, del tempo che uno riesce a dedicare a questo tipo di ricerche, della propria intelligenza e contezza dell’oggetto di studio), non vuol dire necessariamente virare verso il satiresco. Una scelta simile, in effetti, può diventare una scorciatoia: un modo di declinare la responsabilità delle proprie tesi, ad esempio («Ero ironico, eh, come dire»).
Due fattori mi hanno spinto in questa direzione.Da un lato, la tradizione con cui mi sono formato, quella dei moralisti (come li chiama Lacan: da Montaigne a Nietzsche, quelli che, da una posizione fortemente decentrata, isolati e in qualche modo illegittimi, pretendono affrontare temi fondamentali tematizzando la propria voce, correndo costantemente il rischio di scoprire – riscoprire – l’acqua calda) flirta senza ritegno con un elemento vicino al satiresco, l’umorismo. Ora, al netto dei rischi e delle scorciatoie, integrare nel discorso un elemento che permetta, ogni volta, di mostrare l’altro lato di una tesi, significa maneggiare il dubbio, cioè dare a quest’ultimo un ruolo attivo nella composizione. Si tratta, in questo senso, di un dualismo (speculazione-satiresco) a cui ero abituato, di una griglia di partenza; quindi, allo stesso tempo, di uno strumento e di un limite del mio sguardo. Dall’altro lato, tuttavia, il tema principale del libro, la figura di Pierre Menard, il progetto paradossale di Pierre Menard, è inquadrato da Borges all’interno di un dualismo simile: ridicolo eroismo. Mi è parso importante, metodologicamente, per scrivere questo libro, mettermi nei suoi panni, essere Pierre Menard.
Antonio: Essere Pierre Menard. Teniamolo a mente. Per vari motivi: Menard è innanzitutto l’incarnazione del limite di cui parli, ne è il contrassegno, incarna una figura capace di definire sia i limiti che i confini del rapporto e della percezione che si ha di finzione e di realtà. Il modo in cui la vicenda di Menard, raccontata da Borges, si trasforma nel tuo libro riprende quel tema del gioco a cui facevamo cenno nella nostra scorsa chiacchierata – facendo nostri i pensieri di Cortazar: «[lo scrittore] gioca nella misura in cui ha a disposizione le possibilità infinite di una lingua» – e ne fanno il grimaldello per arrivare a un più alto livello di rappresentazione del reale. O forse sarebbe meglio dire: a una più intensa propagazione del senso del reale; e quindi accogliere la vertigine. D’altronde la tua risposta conferma e accoglie il senso provocatorio della mia domanda sul sarcastico. Giustamente tu parli di possibile scorciatoia nell’utilizzo: eppure nel sarcastico, nell’ironico, nell’umoristico c’è una tendenza verso l’esterno, una maniera per esasperare certi concetti erenderli più netti o invertirli di polarità. Un espediente che, se ben calibrato, diventa poi occasione per poter affrontare senza remore qualsiasi tema. Su tutti: la morte.
Alfredo: Il comico, per usare una categoria più ampia, ha un tratto distintivo netto: è duplice, mi pare. Da un lato è una scorciatoia nella misura in cui, come si dice nell’introduzione del libro, “chi ride, spesso, finisce per accontentarsi di ridere”. Dall’altro è una sonda nel territorio che Freud ha definito “l’altra scena”, al limite del quale c’è la figura che hai appena indicato: la morte.
Ai confini di questo territorio, però, non c’è solo la dama nera – c’è un’altra figura la cui presenza, le cui fattezze, le cui ragioni è facile dare per scontate: il narratore. Chi parla in un testo letterario? Come? Da dove? È possibile utilizzare gli strumenti del comico, esasperandoli, per fare di un testo letterario un campo di forze in cui tutto è sistematicamente messo in discussione, in cui anche l’autorità ultima che conduce le condizioni di possibilità di un testo (cioè la sua capacità di sortire un effetto nel lettore) scivola nel nonsenso – a volte placidamente, a volte bruscamente.
In un testo come Una possibilità del linguaggio, in cui l’elemento saggistico, pur dominante, convive con l’invenzione letteraria, l’ingresso del comico innesca un movimento a scomparsa: la voce che guida il percorso esplorativo fornisce passaporto e generalità, certificato di nascita, residenza, etc. – eppure, alla fine, persino l’ufficio anagrafe (l’autorità ultima) si ritrova davanti un conflitto paradossale: falsi o veri che siano i documenti del narratore, nella chiusa si verifica un ribaltamento e un mescolamento; le idee, le ipotesi del libro tendono a svincolarsi dai soggetti che le hanno espresse, pretendono vita propria, una vita indipendente da quella degli individui che le hanno veicolate (tu, Antonio, io, Borges o Pierre Menard). In questo scacco matto simbolico che conduce il finale di partita, la presenza del comico continua a suggerire, tra le righe, che non ci si dimentichi della morte quale figura del principio di realtà: così com’è cominciato, questo gioco a un certo punto finisce; quando sarà finito, nessuno più ricorderà le sue regole.
Antonio: Questo, Alfredo, sposta di poco il nostro discorso pur senza perderne il centro. La convivenza di saggio e invenzione letteraria crea un andamento narrativo all’interno dei tuoi saggi che, a dosi ricalibrate, ricorda quello dei tuoi racconti e del tuo romanzo; dove il fuoco, il fulcro della vicenda e la possibilità di interpretare quella precisa vicenda tende a risiedere, più che nei segnali lasciati dall’autore, nel punto di osservazione, nel luogo da cui si determina la narrazione. Qui, in Una possibilità del linguaggio dove si pone il narratore? A che distanza e a quale posizione rispetto all’opera o al fenomeno letterario preso in analisi? Lo spazio che queste domande provano a ritagliarsi nella comprensione del tuo testo, in fondo, ammicca all’articolo indeterminativo del titolo della raccolta di saggi: farsi carico di una posizione (fisica, tematica, cognitiva) rispetto a un argomento pone inevitabilmente l’accento su una possibilità piuttosto che su un’interpretazione certa. E l’interpretazione diventa, in questi termini, un azzardo, un rischio così intenso da – per dirla con le tue parole – assumere la dimensione di «un affare personale, come l’amore, la vita o la morte».
Alfredo: Per prima cosa la voce che prende la parola, tematizzando i suoi limiti (introducendo cioè la sua finitezza, le sue lacune, la sua parzialitàcome tema e come orizzonte del testo), introduce un elemento narrativo nel libro: ora abbiamo un vero e proprio narratore. Come si pone quest’ultimo rispetto all’oggetto che sta tentando di afferrare? Come Pierre Menard: quanto più prossimo a esso e, allo stesso tempo, a una distanza incolmabile. Ciò che non riesce a dire è dichiaratamente il motore di ciò che dice.
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