Giusto un decennio fa, sette anni dopo Il calamaro e la balena e sette anni prima di Storia di un matrimonio, Noah Baumbach dava alla luce Frances Ha, un film in bianco e nero di appena un’ora e mezza che si sarebbe guadagnato col tempo un’attenzione sempre crescente. Basta vedere le tracce che ha lasciato nel web, dove le recensioni continuano a fioccare qua e là, segno evidente che il pubblico cinefilo non se n’è dimenticato.
Il merito fu (anche) di Quentin Tarantino, che nel 2014 inserì Frances Ha nella sua top ten dei migliori film dell’anno precedente – dopo un’anteprima nel 2012, sarebbe arrivato nelle sale l’anno seguente – accendendovi dunque un nuovo riflettore. Quindi grazie, Quentin, anche per questo. Perché, benché abbia conquistato fin da subito il consenso della critica, Frances Ha è un film indipendente, e in quanto tale ha incontrato tutte le difficoltà del caso, a cominciare da una distribuzione limitata. Ma noi sappiamo bene che indipendente non vuol dire scadente. Anzi, indipendente è un aggettivo che neanche usiamo più, preferendogli all’occorrenza l’etichetta di indie che, a sua volta, anticipa tutta una gamma di scelte estetiche e d’espressione. E questa è, appunto, quell’occorrenza.
Girato con attrezzature ridotte per consentire facilmente gli spostamenti della troupe e le riprese in esterni, Frances Ha porta la firma di Baumbach alla regia, a cui s’aggiunge quella di Greta Gerwig alla sceneggiatura, che qui è anche protagonista. Frances Halladay (questo il suo cognome per intero) è un’aspirante ballerina di 27 anni, tirocinante presso una compagnia in cui spera di entrare a far parte come professionista. Vive a Brooklyn con Sophie, la sua migliore amica, con la quale condivide ben più di un appartamento: il loro è un rapporto simbiotico, totale, una forma d’amore di quello che può esistere solo tra anime gemelle (di sé stesse dicono che sono l’una la copia dell’altra ma con capelli diversi, e che assomigliano a una coppia lesbica, ma senza il sesso).
L’inizio della fine, per Frances, è rappresentato proprio dal trasferimento di Sophie in un altro quartiere, che per lei, al contrario, è solo il primo di una serie di gradini verso l’autodeterminazione dell’età adulta. Frances non può mantenere da sola le spese dell’affitto, e da qui inizia il suo vagare da un appartamento all’altro, in un’inarrestabile discesa verso il basso sempre più umiliante, fino a ritrovarsi in un dormitorio giovanile per cui è, evidentemente, troppo grande.
Quello dell’età è uno dei temi costanti del film, in cui il richiamo alla condizione anagrafica della protagonista è pressante – e quella dei 27 anni non è nemmeno una scelta casuale. I ventisette sono decisamente un’età di transizione, in cui sei abbastanza grande da aver terminato gli studi e iniziato a progettare la tua vita futura, ma non per forza abbastanza maturo da avere un piano preciso e infallibile. Frances è in quel momento esatto in cui inizi a fare i conti con la possibilità che i tuoi sogni potrebbero non coincidere con la realtà.
Da questo punto di vista, è facile riconoscersi in Frances – ed è uno dei motivi per cui il film potrebbe essere stato girato anche l’altro ieri: perché Frances Ha parla a tutti noi. Noi che, alla soglia dei trenta, assistiamo al naufragio delle nostre più rosee previsioni senza che fossimo preparati a lasciarle andare. Noi che ci sentiamo ancora in tempo per prendere delle decisioni, anche quelle sbagliate, purché non siano definitive, nonostante tutti quanti continuino a dirci che siamo troppo grandi. Frances se lo sente dire di continuo, che ha una faccia da vecchia. Come se i 27 fossero i nuovi 40. Eppure continua a rifuggire dagli impegni e anche un po’ dalle responsabilità, prima di arrivare a capire che forse il suo talento e la sua passione possono assumere anche un’altra forma.
Soprattutto, continua a correre, a ridere, a danzare. Ecco perché Frances Ha è essenzialmente una commedia: perché nonostante la deriva personale della protagonista non abbandona mai lo spirito ottimista. Frances è, secondo un’altra definizione che le appioppano nel film, infrequentabile. La verità, però, è che è irresistibile, e il merito va essenzialmente all’interpretazione di Greta Gerwig. Ci vuole un attore che abbia carattere per interpretare un film costruito interamente sulla sua performance. La sua Frances è così adorabilmente spontanea e senza filtri, naïf e assetata di vita, imprevedibile, senza alcun senso per l’estetica o per il look. Una di quelle persone che non noteresti mai a prima vista, ma che appena aprono bocca non puoi più smettere di ascoltarle.
Con un bianco e nero che ricorda la Nouvelle Vague di Godard e Truffaut, il ritmo e il tono di Woody Allen, un’ironia à la Wes Anderson e le atmosfere anticipatorie di quello che sarà Lady Bird (scritto e diretto non a caso proprio dalla Gerwig), il film segue la sua protagonista sempre in movimento, in corsa per le strade, in fuga da una città all’altra, fino all’epilogo finale. L’apoteosi della realizzazione: un appartamento tutto suo. Uno in cui inserire il proprio nome nella cassetta delle lettere. Peccato però che quel nome sia troppo lungo per starci per intero, ed ecco che Frances Halladay diventa Frances Ha, che più che a un ridimensionamento fa pensare a un nuovo inizio. Una nuova Frances da cui ricominciare.
Andrea Vitale
Frances Ha è attualmente disponibile in streaming su Amazon Prime Video e a noleggio su Google Play.
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