Un Saggio sulla paura, ma in versi. Quello di Fabrizio Miliucci (uscito nel 2022 per Pietre Vive) è un libro che, se a livello tematico studia le diffrazioni del soggetto e il rapporto conflittuale tra soggetto e mondo esterno (la paura del titolo ruota proprio attorno a questo «limite fra essere liberi ed essere esclusi»), a livello concettuale pone l’interrogativo sullo statuto della poesia, facendola dialogare con altre forme di conduzione del pensiero.
Saggio sulla paura è del resto un libro che alterna in maniera frenetica parti in poesia e parti in prosa. La stessa natura dei versi Miliucci, anzi, tende verso i modi della prosa, sia dal punto di vista strutturale (la maggior parte dei testi che troviamo nel libro adottano versi molto lunghi), sia da quello caratteriale (si evitano posture ieratiche e lirismi). Anche sul fronte tematico e attanziale, poi, le poesie si fondano spesso su piccoli episodi narrativi, scene, che sono di ordine quotidiano e colloquiale: «Passiamo il sabato a discutere i difetti di un bilocale sulla Casilina / ipotizziamo che trasferirsi ancora più in periferia abbasserebbe la rata del mutuo / attraversiamo Alessandrino Torre Maura Giardinetti e non vediamo niente.» Complementarmente, le parti in prosa non si rifanno tanto al tipo prosa in prosa, bensì paiono veri e propri microracconti, con dei personaggi e un plot (esemplare in questo senso è Mobbing).
Si capisce chiaramente, dunque, come l’idea di saggio qui non abbia a che fare con l’esposizione di uno studio tramite un discorso argomentativo e sillogistico – tradiscono questa natura il carattere finzionale (lato narrativa) e quello metrico-ritmico (lato poesia) della scrittura di Miliucci – ma richiama forse più gli Essais originali, quellidi Montaigne, con il loro carattere aperto e onnivoro. Anche se il Saggio mantiene un’unità di senso (che ci è data dall’argomento espresso dal titolo nonché dalla cornice composta da primo e terzultimo testo, rivolti entrambi confessionalmente a Carlo Bordini), Miliucci procede quindi per tentativi, frammenti, non affronta mai il tema paura in maniera frontale o didascalica. E quando, in apertura, dice «la poesia è un encefalogramma […] Ho deciso di scrivere un saggio sulla paura – lei non mi dice più niente» annuncia già la natura magmatica del libro, che vuole accedere a una tensione che si colloca aldilà dell’“ottenuto”, del “finito” della poesia, ma al contempo conservare ciò che di realmente vitale la poesia è in grado di schiudere («I libri / riardono / più di una voce»).
È curioso però – ma è proprio questa la complessità del libro – come la tensione “aldilà” non si traduca minimamente in afflato mistico: al contrario, Saggio sulla paura è un libro di tremenda immanenza. Ancora nella poesia dedicata a I libri, poco più avanti, leggiamo «i libri possono soffocare animali di tutte le taglie: stai attento ai libri» e «nella realtà non esistono i libri». Qui, sì, forse troviamo affinità con l’universo della scrittura di ricerca, e in particolare con la necessità di una «sottrazione o […] neutralizzazione delle immagini», come avviene secondo la litteralité di Gleize[1]. Ecco dunque l’ossessione ricorrente per l’«al di qua» («E poi tornarsene a casa la sera, guidare veloce fra le buche / essere il perpetuo moto di un indefinito al di qua / sentire il bisogno di fare del male a qualcosa o a qualcuno»), che in termini creativi vale come riscoperta vividezza delle immagini, fluidità («Feto adulto, giravo per la Colombo come un pazzo in cerca di qualcosa»), mentre dal punto di vista filosofico come totale, benché anti-patetica, presa d’atto dell’assenza di una via di fuga.
Posto il “tutto qui” del mondo, la poesia di Miliucci non può quindi che farsi come poesia degli scarti. Lo capiamo già dai titoli delle sezioni: Gli errori e La deficienza chiamano esplicitamente uno spazio fuori fuoco, minato dalla mancanza, mentre Il presente domani e La dolce vita agra trovano nell’ossimoro il veicolo retorico per evidenziare una contraddizione o frattura («Di una cosa mi interessa innanzi tutto il punto di rottura»). Quella di cui parla Miliucci è infatti una «vita monca», un’estraniazione («mi penso in continuazione, come una specie di parente lontano»), per cui sia la percezione («da tempo mi sembra che sia tutto calante, finale»), sia la prospettiva («La mia routine si cova nella certezza del disastro»), sia il desiderio («Io aspetto fiducioso che non ci sia altro da fare») ricadono in una realtà quadrata e senza riscatto.
La paura su cui si impernia l’opera, del resto, non è una paura “oggettiva”, lo spavento per una precisa minaccia; si configura piuttosto come situazione della coscienza, paranoia radiale. «Il mio stato cosciente è un verminaio oscuro e pauroso»: assistiamo al dipanarsi di un mondo così permeato dal non-senso che spinge a disoccuparsi interamente, rinunciare a qualsiasi pratica di auto-costruzione («Ho così scarse human skills che spesso mi sento atterrito», «Ci siamo, ma solo in virtù di quello che non stiamo facendo»).
Ma quale l’origine di questo smarrimento? Anche in questo caso il soggetto del libro si mostra troppo intrappolato nella sua (non-)reazione allo stato di cose (l’autore la chiama «un’atavica monomania») per illuminare scientemente sulle cause. Così il lettore è spinto a costruirsi una teoria a partire dai gesti che vede messi in scena – anche qui si vede il respiro narrativo di Miliucci – oppure dai rari momenti di teoresi, che assomigliano però più a spiccioli prontuari di sopravvivenza, a Tecniche di basso livello, per dirla con un autore, Bortolotti, cui Miliucci può essere avvicinato quando ricorre alla sconfitta di una prima persona plurale («Attraversiamo i giorni a testa bassa attirando sciagure che compensino un’inclinazione tragicomica»).
Se l’eziologia è scarna e parziale («non è alienazione, è qualcosa che non sappiamo spiegare»), ai «capri espiatori mancati», sopravvissuti non si sa bene a cosa, non resta che un destino irrisolto. Il tono confessionale verso «Carlo» è la ricerca di una guida («avevi ragione»), una debole speranza, e Il bene chiaro cui è intitolata la sezione finale non una salvezza, bensì una tregua provvisoria. Un «bene da poco», la cui chiarezza è un’improvvisa luminosità ma anche qualcosa di precario («io rimango commosso e stordito – abortito e castrato a un tempo – davanti al concetto della sua semplice vita»). A mali diffusi e impalpabili, insomma, risponde un bene a sua volta episodico e temporaneo. Saggio sulla paura non porta in verità una saggezza conchiusa, se non quella di cogliere in atto l’esperienza contraddittoria del mondo e un’interrogazione non risolta sul senso. «Nel dormiveglia» – così si chiude il libro – «resto col dubbio.»
Antonio Francesco Perozzi
[1] Cito da Andrea Inglese: https://www.nazioneindiana.com/2018/07/09/iconoclastia-artistica-e-concetto-di-litteralite/
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