Intervista a Daniele Mencarelli
Torino-Castelli Romani. Sono le ore 18 e chiamo Daniele. La nostra intervista avviene tramite telefono. La voce di Daniele è la voce accogliente e umana di chi ha vissuto tanto e di chi, su questo vissuto personale e doloroso, ha riflettuto e scritto.
Parliamo delle nostre vite, delle difficoltà che ciascuno di noi ha incontrato e incontra quotidianamente, e poi parliamo delle sue poesie, dei suoi romanzi, del nuovo adattamento cinematografico tratto dal suo romanzo autobiografico Tutto chiede salvezza.
Daniele è Daniele Mencarelli, poeta e scrittore romano, in grado di instaurare, attraverso i suoi libri, una straordinaria relazione di dialogo con i suoi lettori e le sue lettrici.
La sua è una scrittura che aiuta il lettore a prendere consapevolezza della propria umanità, dei rischi che comporta la conduzione di una vita umana, e di come, quelle domande che, più o meno consciamente, ci poniamo, senza riuscire a trovarvi una risposta univoca ed effettiva, siano tuttavia la naturale conseguenza del nostro essere umani.
Dopo aver esordito nella poesia, pubblica nel 2014 il suo primo testo di narrativa, Luci di Natale, (Graphe Edizioni). Nel 2018 esce, per Mondadori, il primo testo della sua trilogia anticronologica, La casa degli sguardi, vincitore del Premio Volponi, Premio John Fante Opera Prima, Premio Severino Cesari. Nel 2020, pubblica, sempre per Mondadori, Tutto chiede salvezza, che ha vinto il Premio Strega giovani e il Premio Segafredo Zanetti, e nel 2021, Sempre tornare.
Ciao Daniele. Tu sei romanziere e poeta, il tuo esordio avviene nella poesia: le tue poesie, infatti, sono apparse per la prima volta su clan Destino, nel 1997. In seguito, hai pubblicato diverse raccolte, tra cui Bambino Gesù ospedale pediatrico (Tipografie Vaticane, 2001), la cui genesi viene raccontata nel romanzo La casa degli sguardi (Mondadori, 2018).
Proprio in La casa degli sguardi, scrivi che «la poesia testimonia il dolore, ma non lo cura». Cos’è, e cos’è stata, dunque, per te la poesia? La parola, più che terapia, è testimonianza?
Sì, per me, la poesia è una testimonianza del dolore che, nella naturalezza del soggetto, prende poi un risarcimento, una cura per un dolore che non è quello di chi ha scritto, ma di chi quella scrittura e quel dolore l’accoglie, e nell’accoglierlo, mette in essere tutta quella serie di piccole e grandi rivoluzioni che, in qualche modo, accadono quando si incontra uno scrittore.
La lettura toglie dalla solitudine, toglie dall’errore macroscopico che un ragazzo di provincia può fare, cioè credere che quel dolore sia solo suo, che l’abbia inventato lui, che sia una maledizione sua, e invece, appunto, grazie alla poesia, scopri che quel dolore è nato da quando è nato l’uomo, scopri che non esistono uomini che se, in sincerità, si guardano dentro, non ammettano anche loro di avere certi temi in comune con chi viene generalmente definito folle.
La poesia è una disciplina, che insieme alle altre arti, può dare sostegno all’uomo nei momenti di difficile comprensione esistenziale, oltre a quegli aiuti che sono previsti da canone scientifico.
Quali sono i poeti che leggi maggiormente? In La casa degli sguardi, il giovane Daniele, durante le pause dal lavoro, legge Giorgio Caproni…
Uno è quello che hai citato, Giorgio Caproni. E l’altro, che è stato per me catartico, è Dario Bellezza, poi è arrivato Umberto Saba, poi Camillo Sbarbaro. Come puoi vedere, cito tutti poeti che hanno una leggibilità, che hanno una chiarezza, anche proprio di dettato, che per me è, in alcuni momenti, importante, cioè la scrittura come gesto di spontaneità, di resa alla forma.
Questi sono i poeti che più di tutti ho amato, poi ne sono arrivati altri più contemporanei, ma i primi sono stati questi.
In Sempre Tornare, il tuo nuovo romanzo, edito da Mondadori, torni cronologicamente ancora più indietro, al 1991, e racconti il cammino che il Daniele diciassettenne, piccolo Odisseo del centro Italia, compie andando alla ricerca di sé stesso. Qual è il fil rouge che unisce i tuoi tre romanzi?
In fondo, in tutti e tre i libri, partendo dal primo in una chiave più adolescenziale, in modo esplosivo nel secondo con il TSO, in un modo più adipendente nel terzo, la grande domanda è «possono esistere ancora, e resistere, una serie di domande esistenziali, ovvero una serie di domande che riguardano l’uomo, che non necessariamente finiscano in un lettino di psi e qualcosa?».
Io sono il primo, poi, a non aver saputo gestire la mia fragilità rispetto a queste questioni, ma la mia domanda è se è ancora possibile per l’uomo vivere a contatto con temi dell’esistenza senza essere automaticamente bollato come “nevrotico”, “depresso”, “iperansioso”…
Per me, è necessario far capire che dentro quelle domande è trascorsa tutta l’umanità, perché chiedersi del tempo, del destino, dell’esistenza di Dio, dell’assenza di Dio, del niente, o dell’assenza del niente in presenza del Dio, sono temi che hanno sempre accompagnato l’uomo. Quindi, bisogna dire al ragazzino che, chiuso nella sua stanza, si sente diverso, anormale «guarda che se si interroghi su chi sei, cosa fai e dove andrai e, se queste domande le sai vivere in maniera matura, fai semplicemente quello che l’uomo ha sempre fatto».
Nella narrativa italiana contemporanea, si parla sempre di più di malattia mentale. In L’arte di legare le persone (Einaudi, 2021), lo psichiatra genovese Paolo Milone racconta la sua quarantennale esperienza lavorativa in Psichiatria d’Urgenza, documentando la vita di reparto dalla parte del medico. Il libro è stato molto discusso per via della sua vicinanza a metodi di contenzione. Hai letto il libro di Milone?
Guarda, io l’ho scritto anche pubblicamente su un giornale, Legare le persone non è un’arte. In Italia coesistono tante linee psichiatriche, e quella più forte è quella biologista, che ha un’idea del paziente e del rapporto medico-paziente di questo tipo. Io sono molto più affezionato a Peppe Dell’Acqua, a tutti quelli che seguono e hanno seguito Franco Basaglia.
Io credo che il dialogo e l’ascolto siano una medicina molto più potente dello psicofarmaco, perché lo psicofarmaco ha un suo periodo di efficacia, accertato certamente – non sono contro gli psicofarmaci, anzi guai a non prenderli se prescritti dal medico o a interromperli autonomamente –, ma penso che noi, come esseri umani, non abbiamo bisogno solo del farmaco. Dobbiamo essere consapevoli che il farmaco da solo non ha la stessa efficacia dell’unione farmaco-parola.
Come nascono i titoli dei tuoi romanzi?
Ogni titolo ha un destino un po’ diverso. Quello che è stato più lavorato è La casa degli sguardi. Il primo titolo che avevamo in mente venne scartato perché, poco prima della pubblicazione del romanzo, uscì un libro dal titolo molto simile. Poi la mia agente ha proposto di prendere spunto da alcune parole di un verso della poesia dedicata a Toc-Toc, cioè «continua a farmi casa del tuo sguardo». E così è nato il primo titolo.
Tutto chiede salvezza è nato al primo incontro sulla prima lettura fatta da tutti perché lo offriva in modo talmente naturale il romanzo.
Il terzo invece è nato in maniera ancora diversa. Quando sono andato ad aprire sul computer il primo file per iniziare a scrivere, ho scritto questi due vocaboli Sempre tornare, e li ho lasciati lì, non pensando che questo potesse essere il titolo, perché a me all’inizio spaventava questo suono, il “Daniele poeta” lo avvertiva come faticoso e difficile. Poi, di mezzo c’è stato il Covid e quel titolo ha assunto per ognuno, in maniera molto individuale e personale, un significato importante.
Nuovi lavori in arrivo?
Sì, il nuovo romanzo uscirà a gennaio 2023. Si tratta di un nuovo libro, una storia d’invenzione, che viene dopo la mia trilogia autobiografica.
Il 14 ottobre, esce su Netflix, la serie tv, in sette puntate, tratta da Tutto chiede salvezza. Il regista è Francesco Bruni, mentre tu ne sei autore, insieme a Daniele Gambaro e Francesco Cenni. Cosa ci può dire in anticipo dell’adattamento cinematografico rispetto a quello che è il romanzo?
Ci sono solo due grandi tradimenti rispetto al romanzo. Sono due allontanamenti importanti rispetto al libro, ma stanno sempre in quel tema che è la salvezza, che è l’unica cosa che io ho chiesto rimanesse centrale quando abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura del film.
Beatrice Sciarrillo