Nelle ultime settimane, nella top ten delle serie tv più viste su Netflix, si sono avvicendate Stranger Things, The Sandman e The Umbrella Academy. Su Prime Video, il servizio streaming di Amazon, impazza The Boys. Quanto a Sky, invece, sono anni che lega la sua fortuna (anche) a prodotti blasonatissimi e ormai persino di culto afferenti al fantastico e al sovrannaturale. Un nome su tutti: Il trono di spade. E adesso anche il suo prequel, House of the Dragon. Quelle che abbiamo citato sono serie fantasy o di fantascienza, e molte altre se ne potrebbero menzionare, che siano horror, thriller, o action, o che giochino a mescolare due o più generi insieme – si pensi, per esempio, alle recenti ibridazioni che hanno reinventato il teen drama, da Riverdale a Pretty Little Liars.
Non stiamo parlando di un fenomeno appena nato, poiché molte delle serie in questione andavano in onda già sulla tv in chiaro prima di approdare alle piattaforme on demand: molti di voi ricorderanno 24 e Supernatural, e siamo certi che tutti hanno sentito parlare di Lost. E no, non stiamo neanche parlando di dati d’ascolto a livello globale: quando menzioniamo la top ten di Netflix, ci riferiamo a quella italiana. È inevitabile constatare che i generi, in televisione, sono quanto mai vivi. Anche al cinema, in realtà, dove è difficile tener testa ai cinecomic e ai film d’azione. E gli italiani, che fanno? Dov’è, in tutto questo, la produzione nostrana?
A prima vista si direbbe che il cinema di genere in Italia non esista. O meglio, che non esista più. A chiunque sono noti i fasti del passato, a cominciare dai grandi successi del cinema d’orrore: Bava, Argento, Fulci, Deodato hanno firmato capolavori riconosciuti come tali anche all’estero. E che dire degli spaghetti western tanto cari a Tarantino? O dei cosiddetti peplum, i film storici ambientati in epoca classica o nei contesti biblici, con protagonisti i vari Ercole, Sansone e Maciste? D’accordo, si tratta pur sempre – nella maggior parte dei casi – di certo cinema destinato a intrattenere più che a creare nuovi codici espressivi, realizzato con risorse produttive votate al riciclaggio dei set e delle pellicole stesse, e per questo etichettato come di serie B. Ma tutto questo, in fondo, a chi importa? Un film (o un genere) non ha meno diritto d’esistere soltanto perché votato all’intrattenimento, né ci si venga a dire che intrattenimento e arte non siano parenti, ché se così fosse dovremmo rivalutare anche tanta altra cinematografia italiana.
Il riferimento è, naturalmente, alla commedia all’italiana: nessuno vi verrà mai a dire che i film di Risi e Monicelli non siano capolavori. Tuttavia, i dubbi persistono anche se consideriamo la linea produttiva che al momento va per la maggiore. L’impressione, infatti, è che in Italia si facciano quasi solo commedie. Sono decenni ormai che al box office di fine stagione impazzano i re della risata: prima erano i cinepanettoni, Pieraccioni, Salemme, Aldo, Giovanni e Giacomo, oggi invece sono Ficarra e Picone, Riccardo Milani, Paola Cortellesi, con qualche raro evergreen come Verdone. Se volgiamo lo sguardo alla serialità, invece, fioccano i drammi familiari, l’ospedaliero e i gialli con detective reali o improvvisati. A ogni modo, sembra che in televisione non si possa fare una serie se non ci sia un caso da risolvere in ogni puntata. Dunque, il problema sembra essere proprio la mancanza di un’alternativa alla commedia al cinema e alla caccia al criminale in tv.
È per questo che quando arrivano film come Lo chiamavano Jeeg Robot e serie come Strappare lungo i bordi li salutiamo come una benedizione: perché sono delle oasi nel deserto. Una boccata d’aria fresca. Giusto? No. Sbagliato. O almeno solo in parte. I film di Gabriele Mainetti e la serie di Zerocalcare, in realtà, sono tra i pochi che riescono ad arrivare al grande pubblico, vuoi per lo sforzo produttivo, per il passaparola o per la fama del cast artistico. Nascosta nel buio, però, nei bassifondi delle distribuzioni limitate e delle produzioni a basso budget, c’è una filiera di cineasti che pullula di competenza e creatività. Il genere horror, per esempio, sta vivendo un periodo di rinascita grazie a giovani registi come Daniele Misischia, Roberto D’Antona, Domenico de Feudis, Roberto De Feo. L’anno scorso, debuttava al cinema Mondocane di Alessandro Celli, che mescola azione e fantascienza, e l’anno prima ancora è stata la volta de La belva di Ludovico Di Martino, schierato più decisamente sul filone action. Dietro entrambi i titoli c’è l’intuito di Matteo Rovere, uno dei fondatori di Groenlandia, regista de Il primo re al cinema e autore di Romulus in televisione. E poi c’è addirittura chi lavora all’estero, come Mitzi Peirone, Edoardo Vitaletti e Mauro Aragoni, che tra film e serie tv (di produzione statunitense) hanno ricevuto il plauso della critica. Come mai, allora, i loro nomi da noi sono ancora sconosciuti? Come mai tutti questi lavori restano in sordina, riuscendo appena ad approdare, nella migliore delle ipotesi, su qualche piattaforma di streaming?
Il rovescio della medaglia è che spesso e volentieri i prodotti che ottengono maggiore visibilità, accaparrandosi gli spazi principali sui media e sulle riviste di settore, sono quelli che non lo meriterebbero. Ci sono diversi titoli che hanno provato a ravvivare la serialità di genere in Italia in tempi non sospetti, e altri che invece hanno tentato degli innesti al cinema con generi più popolari, senza riuscire però a convincere il pubblico. Forse perché hanno concesso troppo spazio alla commedia o per incapacità di osare fino in fondo. Da questo punto di vista, Netflix ha fatto scuola: chi ha seguito con speranza la nascita di Luna nera, Zero, Curon e Luna Park è rimasto alla fine enormemente deluso. Eppure, la stessa Netflix si dimostra ben più lungimirante quando si tratta di film: è suo il merito di aver distribuito il già citato La belva, o quello di un gioiellino come A Classic Horror Story. Insomma, una politica diversa per i due settori dell’audiovisivo.
Intanto l’enigma rimane: come mai in Italia il cinema e la tv di genere faticano a trovare un pieno riconoscimento e a raggiungere adeguatamente il loro pubblico? Perché il pubblico c’è, e i dati d’ascolto dei successi d’oltreoceano lo dimostrano. E non ci si venga a dire che si tratta di mancanza di fondi: in Rai ci sono cosiddette fiction che vengono messe su con milioni. E comunque, con le buone idee si possono fare anche grandi cose senza vuotare per forza i portafogli. Che sia allora questo, il problema, la mancanza d’idee? O piuttosto è mancanza di coraggio da parte dei nostri produttori? Comunque sia, noi aspettiamo ancora la prima grande serie horror tutta italiana.
Andrea Vitale
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