Prima di Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi e pure La casa dalle finestre che ridono, negli anni Sessanta c’è stato un film che esprimeva in nuce una nuova sostanza cinematografica che i titoli citati avrebbero poi raccolto in eredità. Quel film si chiama Two Thousand Maniacs! e rientra nel novero delle opere che contribuirono a scardinare le regole del cinema classico, a reinventare i generi dell’horror e del thriller e a definire persino un nuovo sottogenere, lo splatter.
In realtà, secondo le cronache ufficiali, lo splatter – o gore che dir si voglia – sarebbe nato con Blood Feast, precedente di un anno al nostro Two Thousand Maniacs! (del 1963 l’uno e del 1964 l’altro), ma diretto dallo stesso regista, quell’Herschell Gordon Lewis che ne è unanimemente riconosciuto come l’inventore. A ogni modo, non stiamo a farci le pulci: la paternità è la stessa e il contesto sociopolitico in cui nascono i due film pure. Cioè, quel clima di tensioni razziali, rivendicazioni civili e fratture sociali determinato da eventi di grossa portata pubblica come l’assassinio Kennedy e la guerra del Vietnam, e che di lì a poco avrebbe condotto all’ascesa e alla morte di Malcolm X e Martin Luther King. È in questo crogiolo altamente esplosivo che non solo prende forma Two Thousand Maniacs!, ma addirittura se ne nutre, rivelando l’esistenza di un’America spaccata in due e tutt’altro che pacifica.
Nel profondo sud degli Stati Uniti, due contadinotti deviano due automobili e i loro sei passeggeri verso la cittadina di Pleasant Valley, dove fervono i preparativi per la celebrazione di un fantomatico Centenario. In realtà, in cosa consistano i festeggiamenti non è dato saperlo, ma i malcapitati lo scopriranno presto. Non vi toglieremo nessuna sorpresa dicendovi che i sei stranieri – guarda caso provenienti dal nord – saranno l’agnello sacrificale della ferocia di questa comunità, formata per l’appunto da duemila anime (i duemila maniaci del titolo). Nei modi più cruenti e disturbati, e sempre sotto esposizione al pubblico ludibrio, uno a uno vengono fatti fuori seguendo l’obbedienza all’esibizionismo splatter: arti troncati, corpi schiacciati, carni straziate e infine anche dileggiate. Prima che sia troppo tardi, due dei sei stranieri rinvengono una targa nei boschi a memoria di un massacro avvenuto giusto un secolo prima: il Centenario altro non è che la commemorazione di una battaglia della Guerra di Secessione in cui l’intero paese fu raso al suolo. Pleasant Valley è una città fantasma che riappare cent’anni dopo per coronare il suo sogno di vendetta e provare così a riscrivere un altro finale alla sua storia.
La trama del film, che si assesta intorno ai novanta minuti scarsi, è praticamente tutta qui. L’unica spinta a procedere nella visione è data dalla curiosità di passare all’esecuzione successiva. Nel mezzo, tra uno squartamento e l’altro, si avvicendano dialoghi lunghissimi ai limiti della noia. La tensione, qualora vi fosse, è prontamente spazzata via da una colonna sonora altisonante in pieno stile country che forse si addirebbe più a una commedia che a un horror. La regia di Herschell Gordon Lewis divide l’opinione pubblica tra chi grida al genio e chi ne critica l’incompetenza. I mezzi a sua disposizione sono scarsissimi, e le due settimane di riprese e i pochi spicci in tasca si vedono tutti. Dell’impronta amatoriale del cast non ne parliamo proprio. Eppure, in quel montaggio così sgangherato, con raccordi quasi inesistenti, c’è chi vi intravede i segnali di una rottura, i sintomi di una rivoluzione contro il codice espressivo della Hollywood classica. Non si può negare, infatti, che ci siano inquadrature con cui Lewis dichiara di sapere molto bene cosa stesse facendo, e che sono poi il motivo per cui siamo ancora qui a parlarne.
Se volessimo considerare Two Thousand Maniacs! da un punto di vista puramente estetico, il suo valore sarebbe praticamente pari a zero. È ciò che ha disseminato che ne fa una pietra miliare degna di nota. Se oggi riusciamo a leggere senza alcuna difficoltà le reali intenzioni che si celano dietro l’accoglienza di Pleasant Valley è perché siamo avvezzi a questo tipo di film: quelli in cui un gruppo di persone finisce fuori strada e si ritrova in una landa desolata, apparentemente cancellata da ogni mappa, in cui vive un individuo, una famiglia o un intero villaggio di psicopatici efferati assassini. A ben guardare, però, i loro crimini nascondono una sottile venatura politica, riconducibile proprio alla natura composita degli Stati Uniti con cui la nazione non è mai venuta veramente a patti. I loro autori sono uomini del sud, ancorati a un passato di presunta grandezza e animati da desideri di rivalsa nei confronti di un nord che li ha sconfitti e umiliati. Le loro vittime appartengono alla borghesia liberal e benestante. Le loro case sono sempre antiche e decadenti. Soprattutto, sono dei reietti sepolti e dimenticati sotto al tappeto.
Non è un caso che gli abitanti di Pleasant Valley agitino le bandiere degli Stati Confederati e intonino in coro Dixie, la canzone più sudista della storia americana. Se avete visto il più recente Non aprite quella porta su Netflix, avrete notato che anche lì compare la stessa bandiera. E a rimetterci le penne è un gruppo di imprenditori piccolo-borghesi, vittime di un meridione arretrato, violento e razzista.
Ce ne sono stati molti altri di film come questi, prima di arrivare al capolavoro di Tobe Hooper del 1974, quel Non aprite quella porta capostipite di un’intera saga, e molti altri ce ne sono stati dopo, e sono tutti debitori di Two Thousand Maniacs!.
Il suo merito non è stato solamente quello di aver formulato per primo (o comunque tra i primi) un nuovo filone narrativo, ma anche quello di averne intuito le potenzialità. Lewis, infatti, ha eletto a carnefice un’intera cittadina, comprendendo quanto potesse essere più spaventoso l’impatto di un nemico così imponente da affrontare, ma anche più carico di conseguenze in termini di senso. Sbagli rotta e ti ritrovi non di fronte a uno, due, tre pazzi assassini, ma a tutta una città. Come a dire che la frattura sociale che Two Thousand Maniacs! porta sullo schermo non riguarda dei casi isolati, bensì una bella fetta di popolazione. Quando la telecamera riprende in primo piano i volti degli abitanti di Pleasant Valley, compiaciuti della barbarie commessa, ma anche anonimi, inquadrati forse per un’unica volta e poi mai più, ci sta mostrando la consistenza del problema in tutta la sua vastità. Si tratta di una caratteristica di cui il cinema successivo farà tesoro e che sopravvivrà intatta fino a noi. Anche qui, in Italia, dove A Classic Horror Story ricalca esattamente lo stesso schema.
Poco importa, alla fine, che l’espediente sovrannaturale non abbia un vero peso nella vicenda e che la trama presenti diversi errori di logica: per esempio, come mai una cittadina scomparsa nel 1865 ritorna cent’anni dopo con un’architettura moderna e le cabine telefoniche? E perché mai un fantasma si impantana nelle sabbie mobili fingendo di annegare? Chi lo sa, e poi pazienza, davvero. Che Two Thousand Maniacs! non sia un bel film lo abbiamo già chiarito. Quel che sorprende è come mai sia completamente sparito dai radar e perché la sua influenza culturale sia stata rimossa. A oggi, almeno in Italia, è completamente introvabile, in qualsiasi supporto e formato. Non è importante che lo vediate, ma almeno che ne prendiate coscienza. E che sappiate che quando i protagonisti di un horror americano finiscono fuori strada, con ogni probabilità stanno andando a imbattersi nella faccia oscura dell’America.
Andrea Vitale
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