Anche se il quotidiano, stando all’etimologia, ha a che fare con il noto, con l’usura dell’“ogni giorno”, alcune delle sue zone possono rivelarsi oblique e misteriose. I racconti contenuti in A pelle scoperta di Francesca Piovesan (Arkadia, 2019) si affacciano su questi incerti e soffusi disvelamenti, a una teoria della narrazione che riduce l’enfasi per far emergere gli scarti.
È il caso di dire che «Alle piccole cose», che leggiamo nell’apertura del libro, corrisponde a un programma più che a una dedica o esergo. I brevi racconti di Piovesan sono infatti interamente rivolti a una speleologia del quotidiano, che in quanto tale non può che farsi di eventi a corto raggio. Siamo in una periferia abbastanza inerte ma non brutalmente degradata (quella del Veneto settentrionale, magari, stando all’origine dell’autrice), dove si consumano storie “regolari” ma sempre attraversate da una certa atmosfera di indefinitezza o incomprensibilità.
In Luna Park, ad esempio, abbiamo le vite parallele e incomunicabili di Greta ed Elvis, vissute all’interno di un sottile straniamento («Greta non aspettava con desiderio quelle due settimane di marzo, capitavano come erano già capitate tante altre cose»); oppure in Tarte Tatin seguiamo lo strano rapporto che Edoardo, «Professore di diritto costituzionale, mai sposato, nessun figlio», ha con il sesso; o ancora in Di bianco purissimo si compie (sempre a mezzo regime, come annuncio più che come fatto) il sommesso rito di passaggio di Davide verso il mondo della moda (o – che è sovrapposto – verso l’accettazione sociale). Piovesan inquadra queste vite senza farle esplodere, conosce l’assenza di apocalissi nei giorni soliti, colmati al contrario da desideri monchi e assuefatti a non essere compiuti, da conoscenze che in realtà sono lontananze.
Tratto tipico della narrazione di A pelle scoperta è del resto la sua anti-epica. Antonio Celano ha parlato in questo senso di scrittura «minimalista»[1], e a ragione: i racconti rifuggono dalle esplosioni, sia in senso tematico (gli eventi sono minimi, come descritto), sia in senso ritmico, nel senso che il lettore non assiste a momenti di alta tensione o ad agnizioni particolarmente riconoscibili. La lingua di Piovesan è paratattica, asciutta, e anche i brevi scatti lirici che a volte si innestano nel discorso sono più uno strumento empatico, di avvicinamento ai personaggi, che di illustrazione di un senso.
Per questo motivo, uno degli aspetti più interessanti del libro riguarda i finali: i racconti si contorcono in chiusure senza soluzione, in piccoli eventi o dialoghi o atmosfere che sembrano addirittura aliene rispetto al resto del racconto. In Club sandwich, ad esempio, la preparazione di un panino farcito arriva nella conlusione come elemento fra gli altri, secondario, di una storia tra le più cupe del libro (quella che riguarda Grazia, Katia, suo padre e il «dottore del cervello»); oppure gli sms luttuosi che chiudono Lo zoo comunale arrivano inattesi e fuori contesto così come avviene nella realtà della messaggistica. Ed è questa, infatti, la chiave: che i racconti di Piovesan hanno del quotidiano non solo la materia umana, ma anche l’andamento – fuori sincrono e incoerente.
Minimalismo e frammentismo sono quindi le strade battute da Piovesan, senza che ciò impedisca una certa compiutezza dei testi – una compiutezza da leggersi, però, proprio nella sua sfuggevolezza, una “compiutezza dell’incompiuto” quotidiano. Ed è a questo livello che forse si comprende più a fondo il titolo: A pelle scoperta rimanda evidentemente a una rivelazione; ma ciò che si rivela è in realtà qualcosa di basilare, naturale, ordinario come la pelle. Il presupposto è insomma che la realtà esperita “normalmente” sia in verità coprente, come un vestito, e la nudità fisica, a questo punto, qualcosa che partecipa al gioco delle rivelazioni, come quella misteriosa de Il figlio («Lui non si fa vedere nudo da noi, da anni») o quella che annuncia una fine in Anatomia umana («il corpo nudo che ha bisogno di essere accudito e curato e profumato appartiene ai neonati o alle persone che non ce la fanno più»).
Possiamo insomma parlare dei racconti di Piovesan come di lievi enigmi, incognite che vengono portate sulla lista degli eventi ma senza generare veri e propri vuoti, fratture incolmabili, in quanto parte integrante della forma d’essere della quotidianità. Solo, adesso, vista “a pelle scoperta”. Qui il candore dello stile di Piovesan: basta un sottile spostamento per torcere le cose e guardarle da un altro punto di vista. E i personaggi non rispondono a questa novità con la tragedia; al contrario sembrano seguire il flusso del non detto (Greta che «Non si era chiesta mai nulla», Grazia che «non aveva pensato alla sua età»), partecipare anche nel taciuto. Andare incontro alla scoperta dell’altro.
Antonio Francesco Perozzi
[1] https://letteratitudinenews.wordpress.com/2019/12/21/a-pelle-scoperta-di-francesca-piovesan-recensione/
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