Dahmer: la realtà è davvero spaventosa
Ci sono due momenti in Dahmer, la miniserie Netflix di Ryan Murphy sul mostro di Milwaukee, che ho trovato angoscianti più di tutti: il primo è la riproposizione di una telefonata occorsa tra Glenda Cleveland, la vicina di casa di Dahmer, e un agente della polizia, e il secondo è quando vengono mostrate le fotografie di tutte le 17 vittime. Entrambi arrivano in fine di puntata, rispettivamente della seconda e dell’ultima, spezzando un incantesimo con una violenza che nemmeno i titoli di coda possiedono. È quella che potremmo chiamare un’irruzione di realtà, con la vita vera che straripa nella finzione e prende il sopravvento.
È la stessa cosa che accade in Euphoria, con la voce che invita – cito liberamente – a non sottovalutare problemi di dipendenze o situazioni di disagio, in chiusura di ogni episodio, riappropriandosi brutalmente di uno spazio che fino ad allora appartiene alla recita. È la rottura della quarta parete, la dimensione di comfort che permette a noi spettatori di prendere una certa distanza emotiva, oltre che fisica, da una visione che altrimenti sarebbe intollerabile. Perché, anche se i fatti narrati sono realmente accaduti, non stanno accadendo davvero sotto i nostri occhi. Non è una diretta Instagram e nemmeno un servizio del telegiornale: quelli sono attori che non stanno morendo sul serio proprio in quel momento. È soltanto una messa in scena, e per l’arco di cinquanta minuti ci è concesso di sorvolare sul fatto che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti non è puramente casuale.
Poi qualcosa, una serie di fotografie o la registrazione di una telefonata, arriva a scuotere la poltrona sotto di noi. Il sipario si alza, la messa in scena è finita. Jeffrey Dahmer è più reale dell’attore che lo interpreta, le sue vittime pure. E quella storia non sembra più soltanto vera, ma addirittura tangibile.
La ricerca di un colpevole
A dirla tutta, per essere una serie basata su eventi reali, Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer si prende più d’una libertà. Jeff e Lionel, suo padre, non sono mai andati a raccogliere carcasse di animali dalle strade quando lui era un bambino. Lionel non gli ha mai insegnato a dissezionare un cadavere né tantomeno la tecnica della tassidermia, anzi rimase ignaro di questa sua passione fino al processo. Così come non ci sono prove che Joyce, la madre, lo abbia trascurato da piccolo al punto tale da non averlo mai preso in braccio da neonato, come si sente dire nella serie per bocca di Lionel.
Tuttavia, è vero che Lionel Dahmer abbia tentato di darsi una spiegazione, di rintracciare l’origine di quel male, di individuare un colpevole, finanche a scorgerlo nella ex moglie o persino in sé stesso. Nel suo libro Mio figlio, l’assassino (reale anche questo) si guarda infine allo specchio e punta il dito contro l’uomo che vi vede riflesso. Lo farà anche il suo alter ego nella serie, Richard Jenkins, confessando a suo figlio ormai già ergastolano che la colpa è tutta sua. Che è stato lui a farne un mostro. Ma sarà veramente così?
È uno dei leitmotiv della serie, che deflagra tumultuosamente nel finale, questa domanda su come abbia fatto Jeffrey Dahmer a trasformarsi nel mostro, nel cannibale di Milwaukee, in uno dei serial killer più efferati della cronaca nera. Perché l’ha fatto? Chi o cosa l’ha reso così? Sono stati i traumi dell’infanzia, una madre depressa e ipocondriaca e un padre assente? O forse la presenza di un qualche disturbo neurologico mai accertato? La risposta che ci consegna l’ultima puntata è che con ogni probabilità non lo sapremo mai. Fuori da ogni rassicurazione, non arriveremo mai a comprendere come può un ragazzo cresciuto in una famiglia come tante diventare un assassino come pochi. Potremmo chiamare in ballo tutta la psicanalisi del mondo, ma ammettiamolo: quante famiglie disfunzionali come quella dei Dahmer conosciamo personalmente? A volte i figli espiano le colpe dei genitori, le violenze verbali e l’anaffettività si ripercuotono sul benessere mentale, ma dove sta il confine, dov’è la molla che scatta precipitando nel baratro un’intera esistenza e tutte le altre che questa incontra lungo la strada?
Che cosa ci resta da fare
Nessuno lo sa. Inutile scatenare la caccia al colpevole: non si può prevedere un Jeffrey Dahmer. Non possiamo fare in modo che non ce ne sia mai più un altro, ma possiamo fare qualcosa per arginarlo: punire, ascoltare e ricordare. L’irruzione di realtà nella fiction è tanto più tremenda perché ci ricorda che è qui che abbiamo fallito. Dove potevamo agire e non l’abbiamo fatto. La telefonata di Glenda al 911 è l’eco lontana di una criticità che non abbiamo ancora risolto: quella dell’invisibilità delle minoranze e di un razzismo dilagante anche tra coloro che sono deputati a proteggerci. Era il 1991, sono passati oltre trent’anni e niente è cambiato. Inutile schermarci dietro la distanza geografica, come se la questione non ci riguardasse soltanto perché tra l’Italia e l’America c’è un oceano di mezzo.
E quelle fotografie cadenzate sul finale, che arrivano come 17 colpi al cuore, sono l’unico memoriale eretto a ricordo delle vittime. Anche se le loro famiglie non sono state particolarmente contente della serie di Netflix, e la loro posizione è quantomai comprensibile. Nessuno che abbia vissuto un simile orrore vorrebbe riviverlo ancora. Eppure, noialtri, che non abbiamo avuto la sciagura di essere toccati dalla tragedia, abbiamo il dovere morale di ricordare. Operazioni come questa possono aiutare al riguardo, al di là degli intenti commerciali alla base e del giudizio complessivo sul valore artistico, perché contribuiscono a informare e sensibilizzare. A preservare la memoria. Nella speranza che la prossima Glenda Cleveland non resti inascoltata.
Andrea Vitale