Racconto: Milleuno
Call
Le quattro e mezza. Finalmente la campanella dell’intervallo.
Paolo finì lo yogurt, lasciò vasetto e cucchiaino sul banco e si diresse verso il giardino dove sarebbero arrivati i suoi amici.
Camminò fino al campo di calcio sorridendo al cielo color confetto. Era il primo.
Marco e Sergio correvano in una gara a due.
Sergio appoggiò le mani sulle ginocchia, tirò il fiato e farfugliò:
«S-sia-m-mo i p-primi!»
L’amico gli strofinò la schiena: sapeva che balbettava se si affaticava.
Un paio di gambe agili superò il muretto. I pantaloncini verde militare che le contenevano erano il suo tratto distintivo. Sandro, il bomber, si sfregò le mani con vigore:
«Buongiorno! Oggi si gioca sul serio, eh?»
Lo volevano sempre come punta, ma lui amava correre e sfrecciava da una parte all’altra del campo, bocca spalancata per ridere e guance accese. Poi, al momento giusto, scattava sulla palla e stampava goal, strizzando gli occhietti vispi ai compagni.
Dalla rete opposta avanzavano lenti Andrea e Mauro, zoppetto come sempre, con la palla sottobraccio.
Andrea diede il cinque a tutti, mentre Mauro chiese:
«E Paolino?»
Si guardarono intorno.
«Di solito arriva per primo…»
«Buh!» gridò Paolo sbucando da dietro la panchina. Rideva, tutto rosso.
Gli amici lo osservarono scuotendo la testa, e Mauro sparò:
«Sempre cretino uguale, tu!»
Paolo ridacchiava:
«Vi siete spaventati, vero?»
Sandro annuì ironico:
«Stavamo già chiamando aiuto!»
Paolo batté le mani:
«Dai, iniziamo a giocare. Squadre?»
Andrea circondò le spalle di Mauro:
«Maurino sta in squadra con me!»
Mauro rispose all’abbraccio in silenzio. Paolo sorrise:
«Io sono con voi.»
Sergio indicò l’altro lato del campo:
«Q-quelli forti, di là!»
Mentre iniziavano a giocare, intorno risuonava il vociare di chi stava sul dondolo, di qualche sdentato sull’altalena, di chi si accomodava sulle panche e di chi girava in carrozzina.
Paolo era in porta. Scarso a giocare, sgambettava e basta: a otto anni, chiarì a sua madre:
«Voglio fare calcio solo per giocare coi miei amici.»
Poi arrivò il pediatra a specificare che non avrebbe potuto praticare agonismo per il cuore, che aveva il soffio. Non era diventato e non sarebbe diventato un campione, ma aveva sempre la bocca all’insù. La mamma gli disse:
«Fai quello che ti fa stare bene e ti fa andare a dormire la sera col sorriso, nel rispetto tuo e degli altri». E a lui faceva bene fare gli scherzi. L’avevano ribattezzato Paolino: era il più giovane, un eterno cucciolo.
«Paolino, sei un po’ matto!» lo prendeva in giro Andrea.
Si erano conosciuti il primo giorno di scuola, quando Paolo gli propose:
«Diventiamo amici per i prossimi cinque anni?»
e lui accettò.
Andrea se la cavava a calcio. Suo padre gli faceva lunghi pipponi tutte le sere su come tirare e gli dava la pappa reale per farlo diventare più alto. Lui s’impegnava ma se non giocava coi suoi amici si divertiva poco.
L’altro portiere era Sergio, che avrebbe giocato a calcio tutto il giorno. Soppesò Mauro in difesa dal lato opposto e contrasse le labbra: poverino, con quella gamba più corta dell’altra. Ma Mauro non si tirava mai indietro. Se non poteva correre, saltellava.
Marco invece odiava giocare a calcio, partecipava solo perché c’erano i suoi amici. Ordinato e timoroso, preferiva giocare a Uno, oppure alle belle statuine!
Così ci provò:
«Ragazzi, cambiamo gioco?»
Gli altri si avvicinarono:
«E a cosa vuoi giocare?»
«Beh, magari a 1 – 2 – 3 – Stella!»
Ci fu un borbottio diffuso. Paolo lo abbracciò:
«Ci sto, conti tu. Usiamo questa metà del campo, puoi contare dalla porta e noi partiamo dalla linea di mezzo».
Marco andò alla porta e voltò le spalle agli altri.
Da fuori campo provenivano chiacchiere, risate, qualche pianto. Qualcuno chiamava ”mamma”.
«Un… due… tre…»
Sandro e Paolino scattarono, Mauro camminò.
«Stella!»
Andrea era quasi arrivato, Sergio si mosse.
Marco lo indicò:
«Eliminato!»
E Sergio cadde a faccia in giù, facendo il morto.
«Uno…»
Andrea era arrivato:
«Stella! Tocca a me.»
Marco gli diede il cinque.
Paolo guardava i suoi amici mentre si riposizionavano con Andrea alla conta. Che bel pomeriggio, che bello giocare. Sentiva quasi il cuore scoppiare.
«Uno…»
Scattò in avanti.
«Due…»
Sandro lo raggiunse.
«Tre…»
Mauro inciampò.
«Stella!»
«Aspetta, Mauro è caduto.»
«Mauro fermo. Tu eliminato, Paolino!»
Paolo aiutò Mauro ad alzarsi, poi strizzò gli occhi a fessura e sghignazzò:
«Ingiusto! E va bene, giocatore Paolino eliminato.»
E si lasciò cadere con un movimento da attore. Gli altri sorrisero e continuarono a giocare.
Dieci minuti e due giri dopo, il fischietto suonò il termine delle attività ricreative. L’operatore Vittorio venne a richiamare il gruppo.
«Basta fare lo scemo, Paolo! Alzati! Dai, sennò domani non ci fanno giocare!»
Sandro aveva la faccia violacea e il tono strizzato dall’agitazione. Appena vide Vittorio, gli corse incontro.
«Che succede ragazzi? Vi si sente da lontano.»
«Non si alza. Continua a fare il morto!»
Vittorio si abbassò accanto a Paolo, gli studiò le pupille opache e non riuscì a consegnare la verità a quelle dei suoi amici.
«Facciamo così: voi tornate dentro, andate a cambiarvi. A Paolo ci penso io.»
Era circondato da occhi timorosi e mani che si stringevano tra loro.
Andrea ruppe il silenzio:
«Andiamo dai. Ci pensa Vitto.»
E il gruppetto si incamminò lento.
Vittorio aspettò che fossero rientrati prima di avvisare il collega con il cercapersone. Da lontano, una carrozzina da cui proveniva ritmicamente “mamma, mamma, mamma”: un’ospite era rimasto fuori, l’avrebbe recuperato dopo aver preso il povero Paolo.
Vittorio si abbassò a chiudere quelle palpebre che tante volte aveva visto stringersi in espressioni buffe. A sessantasette anni, Paolino era stato il più giovane nel suo gruppo, ma anche quello con il cuore più debole.
Non può più giocare come una volta, giovanotto, né avere emozioni troppo forti, gli aveva raccomandato il dottore solo qualche giorno prima. Paolo non gli aveva detto che non aspettava altro che giocare ancora con i suoi vecchi amici.
Nessuno avrebbe mai saputo quanto fosse grato per quella giornata in cui aveva giocato proprio come piaceva a lui, prima di essere eliminato.
Gisella Cominone ha trentanove anni, due bimbi e scrive seriamente da due anni. Ama trasmettere emozioni attraverso la narrazione scritta. Finora si è occupata di racconti brevi, adesso sta lavorando al suo primo romanzo. Scrive per esigenza, vuole essere letta per puro piacere.
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