I film da riscoprire: Lady Macbeth
Lady Macbeth è uno dei personaggi femminili più controversi e conturbanti dell’intera opera shakespeariana. È curioso che colei che prende il nome dal marito, come la tradizione voleva, a significare che non fosse niente più che la moglie di Macbeth, sia arrivata poi a sopraffarlo e a oscurarlo, nell’immaginario e nell’interesse collettivo, per tutti gli strascichi di significato che la sua figura porta dietro di sé. È proprio in suo onore che viene nominata Lady Macbeth del distretto di Mcensk, la novella del 1865 del russo Nikolaj Semënovič Leskov, e quindi il film del 2016 che ne è ispirato.
Il nome rimane soltanto nel titolo, in virtù della caratterizzazione della protagonista, che nel libro si chiama Katharina e appartiene per matrimonio alla ricca borghesia russa. Nella trasposizione cinematografica, l’ambientazione subisce una superficiale anglicizzazione, per cui Katharina diventa Katherine e alla Russia si sostituiscono le campagne inglesi. Nella forma, il resto rimane uguale – forse perfino il gelo percepibile dalle immagini è invariato – e comunque, se non fosse per il fatto che viene esplicitamente citata Londra, quella potrebbe anche essere una qualunque altra fredda regione d’Europa. La storia, invece, subisce una significativa rivisitazione sul finale.
La storia di Katherine
Katherine subisce con evidente riluttanza le imposizioni del marito e i doveri che la sua posizione sociale e la vita matrimoniale comportano. Viene pressoché relegata a una condizione di clausura, in una routine stantia priva di stimoli, dormendo in un letto nuziale freddo e senza amore. Suo marito, figlio di un agiato mercante, non la tocca nemmeno, e suo suocero, da cui derivano le loro fortune, la rimprovera per non aver ancora dato un erede alla famiglia. Finché padre e figlio non partono per impegni forse professionali e per un tempo imprecisato: è allora che per Katherine ha inizio la deriva.
Il punto di svolta è rappresentato dall’inizio di una relazione extraconiugale con lo stalliere Sebastian, con cui si percepisce da subito una tensione sessuale patente. Katherine lo lascia prima penetrare silenziosamente nella sua camera, e poi si abbandona alla passione sempre più spudoratamente, indifferente alle implicazioni che la sua condotta comporta. La loro liaison è lo strumento col quale Katherine si riappropria del suo volere, della sua casa e del suo corpo, anche se ciascuno di questi le appartiene soltanto fino al ritorno del marito. La stessa relazione è, perciò, anche l’inizio di una spirale di drammi, di eventi luttuosi e una vendetta sanguigna che culmina nella meditazione dell’omicidio.
L’esordio applaudito dalla critica
Lady Macbeth segna il debutto nel lungometraggio dell’inglese William Oldroyd, che consegna un’ottima opera prima accolta con un’ovazione della critica e dei festival del cinema indipendente. Il merito è soprattutto di Florence Pugh, l’attrice allora ventenne praticamente anche lei al suo primo ruolo importante, che venne giustamente salutata come una nuova promessa del cinema – e le aspettative non sono state deluse, date le successive performance in Midsommar e Piccole donne, e più recentemente in Don’t Worry Darling. Il suo viso pulito e l’innocenza angelica ingannano sulla vera natura della sua Katherine, forse inizialmente ignota anche a sé stessa, e che con la Lady Macbeth di Shakespeare ha in comune la propensione all’omicidio e la manipolazione per perseguire i suoi fini.
Sono i tratti che già a Leskov suggerirono il titolo per la propria novella, insieme al più pericoloso di tutti: una sfrenata ambizione. Ma dall’eroina tragica la separa una sostanziale differenza, ossia la totale mancanza di rimorso. Questa nuova Lady Macbeth cinematografica sembra non avere né coscienza né pentimento, ma solo una smodata voglia di riscatto, più personale che sociale, in termini che vanno sicuramente letti anche in virtù di una riflessione sulla condizione della donna.
Il prezzo della libertà
Katherine mira a liberarsi dai suoi vincoli matrimoniali, come se Lady Macbeth potesse finalmente avere un nome che sia tutto suo, ma nonostante le legittime aspirazioni iniziali diventa sempre più difficile schierarsi dalla sua parte. Come un’erede di Cersei Lannister, contano solo i fini privati, a scapito di tutti coloro che sarà necessario sacrificare lungo la strada. Ben presto i maltrattamenti ricevuti vengono cancellati da quelli inferti, e la sua trasformazione da vittima in carnefice impedisce di empatizzare con lei, come del resto lei stessa sembra non conoscere compassione.
Emblema di questa crudele metamorfosi è una progressiva virata verso toni sempre più scuri, efficacemente riflessi nei suoi abiti, contornati da una cornice già gelida e soffocante. L’intera vicenda si svolge tra quattro mura, in una magione volutamente spoglia, arredata al minimo e mai inquadrata dall’esterno, come se fosse immersa in uno spettrale limbo indefinito. Le rare incursioni all’esterno non fanno che confermare la sensazione di isolamento e grigiore, come se questa storia potesse effettivamente svolgersi in ogni dove. In effetti, ci vorrebbe uno storico dell’arte o della moda per identificare il tempo e il luogo esatti: siamo in un momento non meglio identificato dell’Ottocento, senz’altro, ma definirlo con precisione è difficile. Del resto, anche questa indefinitezza è senz’altro voluta: dopotutto, tra Shakespeare, Leskov e Oldroyd passano secoli e paesi, e chi negherebbe che Lady Macbeth non sia un personaggio attuale?
Andrea Vitale