Racconto: Corsa n°5 – Jacopo Zonca

Quando sono uscito dal garage ho guardato la luna piena. Era così brillante nel cielo nero che sono rimasto lì in piedi a fissarla, con il casco infilato nel braccio e il manubrio tra le mani mentre sostenevo la moto. Mi faceva quasi male agli occhi. Avevo voglia di mangiarla. Per un secondo ho immaginato di sgranocchiare pezzi di luna fosforescenti.

Sono arrivato alla pista. Il buio era denso, un mare di petrolio illuminato dai fari attaccati ai generatori disposti attorno alla zona artigianale.

Ho fatto in modo di mantenere le pulsazioni del cuore sotto controllo per evitare di sbarellare prima di partire, era la mia corsa numero cinque e la tensione riuscivo a controllarla bene. Prima di ogni gara in genere bevevo un sacco di Red Bull per essere più eccitato, avere i riflessi pronti, cose così. Quella sera però non ho bevuto niente, perché ero sicuro di vincere.

Ho parcheggiato la moto, mi sono avvicinato a Michelangelo fingendo di essere distaccato. Mi sentivo a mio agio dentro la tuta fiammante, con il casco nuovo in mano.

“Mattia! Bella la tuta nuova. Te l’ha comprata il papà?” Ha sghignazzato Michelangelo.

Ho fatto finta di non sentirlo e mi sono allontanato per salutare gli altri.

Fabio era dall’altra parte della pista, seduto sulla sua Honda. Guardava fisso davanti a sé, proprio come fanno i piloti alla televisione. Ho salutato Vincenzo, il suo meccanico di fiducia, che mi ha fatto un cenno con la mano e ha sorriso. In mezzo agli amici si è sempre creduto chissà chi Vincenzo, come se gli altri non conoscessero i debiti che ha fatto per pagare l’affitto del suo buco di officina.

Erano sempre tutti lì a ronzare attorno a Fabio, manco fosse stato il campione dei campioni.

Francesca era vicino a lui. Ho fatto finta di niente ma io la vedevo, eccome se la vedevo. Lei è una di quelle che anche se si veste con uno straccio attira l’attenzione.

Alla sua vista provavo sempre una roba strana, una specie di euforia che scioglie tutti gli ingarbugliamenti della vita. Un’onda che spazzava via tutto. Mi sentivo un alieno.  

Io non sono abituato alla felicità, e quando c’era lei avevo paura di impazzire. Se però le avessi parlato sarebbe finita la magia. Il viaggio alla fine è sempre meglio della scoperta, mi spiego?

Ho sempre sperato che lei mi notasse in mezzo al mucchio. Se avessi vinto, lei mi avrebbe chiesto il numero, ci saremmo sentiti e poi ci saremmo messi insieme. Ne ero sicuro.

Magari avrei anche fatto sesso. Mattia e Francesca, il mio nome suonava bene vicino al suo.

Ma dovevo pensare alla gara. Mi sono messo in un angolo, ho fatto tutti i miei gesti scaramantici come Valentino Rossi, poi mi sono infilato il casco nuovo di zecca e sono tornato in sella alla mia Ducati.

Correvamo solo io e Fabio. Era una sfida tra noi pensata un mese prima. Non me ne fregava niente dei soldi, tanto qualche euro in più non avrebbe fatto la differenza per me, l’importante era solo dimostrare a lei che ero io il più bravo.

Abbiamo fatto un giro per scaldare le gomme attorno alla zona e controllare che i fari fossero posizionati nel modo giusto per illuminare il percorso.

Siamo arrivati davanti alla linea tracciata a bomboletta. Ero pronto.

I secondi che separano dalla partenza durano una vita.

Partiti.

In quel momento tutto il resto è scomparso. I ragazzi attorno al circuito erano una massa illuminata solo dai fari. Le luci sono diventate scie fosforescenti mentre la velocità è aumentata. Il motore ha rombato, il cuore a mille, sembrava quasi andasse più veloce della moto.

A ogni curva ho scalato le marce dolcemente, il freddo della notte mi grattava il collo tra il casco e la tuta. Ho sentito il fuoco a ogni piega, per la prima volta io e la moto siamo stati un tutt’uno.

Fabio mi ha superato al terzo giro, da quel momento è cominciata la gara vera.

Avevo preso confidenza con il circuito, ma ho rischiato di uscire alla seconda curva e di scivolare contro i bidoni di metallo. Al penultimo ho accelerato al massimo, la lancetta rosso acceso del contachilometri ha sfiorato i duecento sul rettilineo, poi ho scalato e ho goduto a sentire il motore che abbassava i giri per poi rombare alla curva successiva.

Quando corri senti tutta una vibrazione nelle mani, i rumori trapassano la scorza del casco e ti bucano le orecchie, è una cosa unica. Voli.

Fabio era ancora davanti a me, vedevo le fiamme che uscivano a scatti dalla marmitta, ma non riuscivo a superarlo.

All’ultima curva a sinistra, ho visto Fabio uscire di strada a tutta velocità e schiantarsi contro il muro del capannone.

È stato una specie di missile, la moto si è mossa come un pesce nella rete e Fabio ha mollato il manubrio ed è volato contro il cemento. Sono andato avanti lo stesso.

Ho tagliato il traguardo ancora euforico, ma ho visto che gli altri non esultavano, non mi guardavano neppure.

Si sono precipitati tutti vicino a Fabio. Era tutto confuso, non riuscivo a vedere. La Honda era distrutta da un lato, aveva il cupolino sfondato e un fanale rotto, ma quello ancora buono riusciva a illuminare il corpo di Fabio. Gli hanno tolto il casco con la visiera crepata. Aveva gli occhi chiusi, il naso scoppiato, il sangue che gli colava sulla giacchetta da motociclista. Gli hanno toccato il collo. Poi alcuni hanno cominciato a piangere.

Quando in lontananza abbiamo sentito le sirene della polizia siamo saliti sulle moto e siamo scappati. La prima vittoria non è stata come mi aspettavo.

Il giorno dopo mentre facevo colazione ho visto la notizia al telegiornale.

Parlavano delle nostre corse e dicevano che i controlli della polizia sarebbero aumentati e balle varie.

Stavo male al pensiero che non avrei visto per un po’ Francesca, ma tanto mi avrebbe richiamato per farmi complimenti, e questo mi faceva stare molto meglio.

In quei giorni sono andato a fare dei giri da solo, perché io senza moto non ci posso stare. Sono tornato sulla pista dove abbiamo fatto l’ultima gara. Davanti a quel muro c’erano ancora i segni dello schianto. Il posto era completamente diverso alla luce del sole, mancava la magia della notte, con i barili con dentro il fuoco, un po’ di musica in sottofondo e tutte quelle robe lì.

Dopo sono passato all’officina di Vincenzo. Appena l’ho visto mi sono reso conto che non stava bene per niente, aveva una faccia bianca, tutta scavata, gli occhi rossi.

“Che cazzo vuoi?” Mi fa.

Volevo semplicemente parlargli. Appena siamo entrati nel suo ufficio si è messo a piangere. Era disperato, ma da un lato mi piaceva vederlo in quel modo. Ho tirato fuori una mazzetta con le banconote, ma Vincenzo ha preso i soldi e li ha buttati a terra.

“Non li prendi? Fatti tuoi, io i patti li rispetto. Che cazzo, dovevi solo modificare il cambio, non farlo schiantare!” Gli ho detto.

Vincenzo non ci ha più visto. Quello sfigato mi voleva picchiare, invece avrebbe dovuto darsi la chiave in testa da solo.

Sono saltato sulla moto e sono scappato via con un’impennata.

Sono steso a letto e ho il cellulare vicino.

Ancora nessun messaggio di Francesca. Nemmeno un saluto.

Ripenso alla corsa, a che grande emozione è stata. Rivivo in continuazione quel momento.  Le luci che diventano scie luminose in mezzo al buio, e poi il vuoto davanti a me, mentre accelero verso il traguardo.

Ho vinto io.

Francesca perché non mi chiami? Perché non mi parli?

La corsa l’ho vinta io, l’hai capito?


Jacopo Zonca è nato a Parma nel 1991. Ha lavorato a teatro come attore e drammaturgo. Ha pubblicato articoli e racconti su alcune riviste (Altri Animali, Limina, Quaerere, Pulpette, Grado Zero, Le nature indivisibili). Ha pubblicato due libri: la novella “52 49” e il libro di racconti “Il mondo è un’altra cosa” entrambi con Epika edizioni.

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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