Ciò che si trova alla base di Sonetti bianchi di Gabriel Del Sarto, uscito nel 2022 per L’arcolaio, non è il recupero antiquario dello schema metrico italiano per eccellenza; bensì una sua riattualizzazione, una sua messa in relazione con altre nature della lingua (la prosa, ad esempio) e gli smottamenti dell’esistenza.
Che il libro di Del Sarto sia composito, nonostante il suo candore, lo dimostra anzitutto la struttura: Sonetti bianchi si divide in tre parti, ognuna formata da dei frammenti in prosa, in apertura, cui segue poi un gruppo di sonetti. Nessuno dei testi è titolato, e anche questo contribuisce alla fluidità dell’opera, alla sua natura – come spiegherò più avanti – “sospesa”. Ma è evidente, soprattutto, come l’accostamento tra sonetto e prosa produca già di per sé una serie di questioni: primo, che il sonetto, strumento antico, è gettato nella lingua della contemporaneità; secondo, che il sonetto partecipa a un discorso, a un ragionamento o a un racconto.
Di entrambi gli aspetti – contemporaneità e discorsività – la prosa può essere infatti testimone esplicito. In primis in quanto forma: la larghezza tipografica e la geometria meno controllata della prosa riportano più immediatamente le insicurezze (vedremo fra poco) che toccano l’individuo a quest’altezza della storia, e proprio per questo fanno risaltare l’alienità di una scrittura concentrata e calibrata come quella del sonetto. Poi in merito al contenuto: le prose (e quindi il libro) si aprono in uno spazio – quello ospedaliero – che introduce a una condizione di attesa e preoccupazione («In sala d’attesa riesci a ingannare il tempo solo facendoti del male»), mentre raccontano la nascita di un figlio.
A permeare tutto il libro è quindi una domanda radicale: quella sul futuro. Ovvero una domanda che si origina da una situazione di percepita precarietà (non a caso si menziona la recente «quarantena», sorta di ospedalizzazione del mondo), di sfiducia («Sento che il crollo finale è vicino») e che si dirama tanto sul tenore collettivo («osservo con sgomento il presente di una guerra carsica, che ogni tanto appare in superficie nella forma di guerriglie regionali improvvise, causate da un dio o da giacimenti di litio, dai mercati o da rivendicazioni piccolo-nazionalistiche»), tanto su quello individuale, o familiare («Una prospettiva di vita con te»).
La prosa, da questo punto di vista, vale anche come tentativo di razionalizzazione. Lo vediamo chiaramente nella seconda parte, quando Del Sarto cita direttamente «Anna Smajdor, una ricercatrice in bioetica dell’Università di Oslo che equipara la gravidanza a una malattia […] e chiede al governo maggiori finanziamenti per poter debellare il parto e promuovere l’ectogenesi». Oltre a confessare nudamente il cuore problematico del testo (gravidanza come malattia significa anche amore per il figlio e insieme responsabilità, paura, nei confronti di un’esistenza lanciata in un mondo che si fa poco alla volta più ostile), la prosa si piega alla freddezza ordinatrice della saggistica, allo studio e alla citazione.
Sono tuttavia gli espedienti poetici a fare in modo che da questo discorso si sollevi anche una “vivenza” della minaccia – che non è solo razionalmente dedotta, quindi, bensì esperita nella persona. O, meglio, nella persona che viene dalla persona: «Giona» (che è realmente «il più piccolo dei figli di Del Sarto», come spiega Gianluca D’Andrea in quarta di copertina) trattiene in sé metaforicamente (oltre che concretamente) le forze che nel libro si dibattono. «Ogni lezione è assorbita, compresa / naturalmente, nella tua continua / nascita»: Giona (e ricordiamo che, nel mito, Giona è gettato nel fondo della balena, e lì prega) è la manifestazione del presente (nel misto della sua meraviglia e della sua fragilità) e la proiezione verso un futuro che «appare lontano e buio».
Questo espediente è poetico perché passa attraverso un nome e la forza figurale che esso è in grado di sprigionare. «Tremerà la morte, si farà pallida / quando nel suo grembo notturno – giorno / splendido e crudele – scivolerà / il tuo nome»: corpo e nome (o biografia e poesia) si intersecano così nel figlio in quanto figura della domanda sul futuro del mondo.
Ma il poetico, chiaramente, è acceso anche dall’uso del sonetto. Se le prose sono racconto e discorso (e anche discorso intellettuale), le poesie sono esse stesse la “vivenza” che si accennava prima. Lo dice il testo esplicitamente: «Ma la vita è anche la nostra metrica, / Giona, parole in fila come sangue / ininterrotto, preghiera del limite». Ecco dunque l’attualizzazione della metrica: questa è vista come ordine diverso rispetto a quello della ratio prosastica, è ordine del suono (l’organizzazione delle sillabe) e «preghiera del limite», cioè forma di conoscenza, invocazione, che viene da un linguaggio di margine, abbandonato dalla storia – quello della poesia, appunto, e in particolare della forma antica del sonetto. Un meccanismo simile a quello per cui opta lo stesso Gianluca D’Andrea, poi, nel suo Nella spirale (Industria&Letteratura, 2021): anche lì la prosa è messa di fronte a strutture metricamente ferree (D’Andrea recupera addirittura la sestina), e cioè saggio e poesia sono le componenti di un ragionamento che, trasversalmente, ricade anche sulla lingua con cui guardare al futuro.
Dunque, se da un lato Sonetti bianchi, soprattutto nelle prose, incorpora linguaggio scientifico, la modalità “tecnica” di domandarsi sull’uomo, le sue poesie si animano soprattutto di lessico universale, archetipico: «Solo le madri / hanno un limite sconosciuto, mani / porose per farsi attraversare / dai figli, dalle correnti enormi / dei cieli, venti cosmici come acque»; «Il giorno centrale, angelo custode / delle galassie, personale giorno / del mio deserto, ti trattiene sopra / il tetto di questo cielo»; «ignoriamo / le silenziose sinfonie stellari / che ci plasmano». Qui il biancore dei sonetti: in una condizione interrogativa, che cerca il contatto salvifico dell’altro, la poesia prepara al futuro dilatando il presente. Ne vede la densità, la riporta nel ritmo, sospende: «amare / un figlio è non finire questo sogno / per cui morire d’un mondo esatto».
Antonio Francesco Perozzi
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