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“Psiche orripilata”. Fratture e liberazioni ne “Il pensiero perverso” di Ottiero Ottieri

Interno Poesia ha riportato in libreria un’idea di poesia come autoanalisi, frattura della psiche, meta-riflessione dinamica. Oppure, detto in altre parole, ha riportato in libreria Il pensiero perverso di Ottiero Ottieri, che mancava dalla edizione Marsilio del 1986 e che compare ora impreziosito dalla postfazione di Edoardo Albinati, dalla nota filologica di Demetrio Marra e dal restauro delle «singolari interruzioni di pagina» che caratterizzavano la prima pubblicazione del libro (Bompiani, 1971).

Claustrofobia e liberazione

Cominciamo col dire che quella di Ottieri è una scrittura claustrofobica. Noto soprattutto per la prosa, Ottieri esordisce in poesia proprio con Il pensiero perverso, che va letto, quindi, come un atto «liberatorio» (lo definisce così Carla Benedetti nel passo riportato da Marra) perché – parole dell’autore stesso – «permette di dire attraverso scorciatoie, di sfuggire alla logica consequenziale […] di spezzare una prosa in cinque versi.» Claustrofobia e liberazione: abbiamo toccato già un paradosso. Ma la scrittura poetica di Ottieri è proprio questa: aprirsi al paradosso (la «logica consequenziale» che salta), e il paradosso per eccellenza cui si apre è dire l’indicibile, scrivere ciò che non si può scrivere.

Alt: siamo lontani anni-luce da un’indicibile mistico, o religioso. L’indicibile di Ottieri (che è anche ciò che lo attrae verso la poesia, più snella e sbrigliata rispetto alle trame dei romanzi, più – se si vuole – svincolata dai teatri simbolici) è un’indicibile mentale, un prurito, che diventa poi quasi un indicibile fisico. «Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo / lasciatogli libero dal pensiero ossessivo»: ecco l’incipit del libro, ed ecco il paradosso, lanciato già nei primi versi, della scrittura come campo di contraddizione, come bolla di resistenza (scrivere per razionalizzare e conoscere/conoscersi) e insieme come vizio, spazio che dovrebbe essere di libertà e invece viene invaso dal «pensiero ossessivo». Tutto il libro ruota attorno a questo (non-)centro paranoico e insopprimibile («il tempo / medica il dubbio. Ma il dubbio / rinasce dal tempo»), alla «frustrazione e coazione a ripetere, godimento della propria disfatta, insistenza» (come sottolinea Albinati) che rendono la «realtà rachitica», costringono a «deambula[re] nell’oceanico / senso del mondo», fanno capovolgere interamente l’eroismo dannunziano della vita come opera d’arte in una vita minata, semmai, dall’arte, e viceversa: «L’ansietà del vivere gli impedisce / di scrivere. / Frantumata la vita l’ambivalenza / sfarina l’arte.»

Fratture

È chiaro – questo è il senso stesso di scegliere la poesia – che a dirigere la «coazione», l’autoanalisi, l’occupazione della vita del pensiero ossessivo («Il suo lavoro è il pensiero perverso»), sono proprio i versi, nella loro realtà ritmica e visiva. Abbiamo detto già del tema: un (non-)centro paranoico. Ma è lo stile con cui Ottieri lo assedia a fare l’esperienza della poesia, che è poi l’esperienza del pensiero ossessivo: un’esperienza al quadrato di «ossessive idee» che pensano le «ossessive idee».

I versi di Ottieri, infatti, sono del tutto irregolari, oscillano freneticamente tra tessere brevi e altre più distese («Teme la vitale occasione perduta. / Occasione, / che altri giochino mentre lui / studia»), passano dalla prima alla terza persona, si spezzano in continuazione («Unicamente l’alcool libera il petto / e la mente, previlegiate sedi / del tubo e del piombo, della nuvolaglia / che non caglia, della gramigna ossessiva / germinante come il germe solitario»), fanno scontrare le sfere più diverse del lessico (da quella colloquiale o triviale – «fogna», «lenzuoli», «aeroporto» – a quella tecnico-scientifica – «alloplastica», «ortostatica» – a quella colta-letteraria – «eunucoide», «fobigeno» – dal latino – «Homo sine pecunia / imago mortis» – agli anglismi – «play-boy», «jet-set» – ai neologismi – «psicosottigliezze»), sono intessuti di ripetizioni («Di colpo si riaffaccia il pensiero perverso / dopo una settimana in cui si è sentito / diventare diverso. / Tenace è il pensiero perverso»), di rimandi fonici o di rime, spesso nella forma baciata che Albinati giustamente descrive come «regressiva, elementare, ma proprio per questo efficace» («Dà questo dubbio finali squilli, / cunei di ghisa, enormi spilli»); i testi, in generale, sono lunghi e senza titolo (dunque, volendo, senza un cuore tematico forte).

Si tratta, insomma, di espedienti più o meno microscopici che fanno risaltare soprattutto tre aspetti della poesia di Ottieri: la sua natura fluida e spontanea, il suo accumularsi strada facendo; la sua sovrapposizione tra il serissimo del malato e il faceto del provocatore di se stesso, dell’auto-critico («E la penna ha i pensosi disturbi del pirla»); la sua forma torta e nevroticamente compiaciuta della propria torsione. Che – se uniamo questi tre aspetti – è come dire che proprio la forma disarticolata e mossa della poesia (arte dell’enjambement, delle associazioni libere) fa emergere il conflitto dell’io con l’io e del testo col testo, per giunta «senza l’appiglio consolatorio della costruzione drammatica», come scrive Policastro.

Singolari interruzioni

Ma c’è di più. C’è un livello apparentemente marginale, che si trova nel mezzo (fisicamente, proprio) tra scrittura e vita («Talvolta si rifà viva l’arte: / un miscuglio di vivere e scrivere»), o – che è lo stesso – tra il libro come testo e il libro come oggetto. Ed è uno degli aspetti più interessanti, oltre che dell’opera in sé, della riedizione di Interno Poesia. Si tratta delle «singolari interruzioni di pagina che compaiono ogni tanto senza, apparentemente, una logica» su cui si concentra la Nota filologica di Demetrio Marra. Prendendo in mano questa edizione, infatti, ci si accorge subito di una particolarità tipografica: che i testi si trovano principalmente sul recto della pagina, mentre il verso compare quasi sempre bianco. Ecco: leggiamo nella Nota che il medesimo meccanismo si rintraccia nei manoscritti, e che la seconda (e fino a poco fa ultima) edizione del libro aveva soppresso le interruzioni che invece figuravano nell’edizione Bompiani. Scrive quindi Marra che non si tratta «di un errore di stampa ma di una questione di poetica», che siamo di fronte a «un libro ancora indeciso tra la raccolta di poesie e il poemetto narrativo» e che, infine, «le interruzioni di pagina individuano degli “episodi”, oserei dire patologici, più che delle strofe o dei capitoli nel lungo poemetto Il pensiero perverso, sono cioè delle “stringhe” del lungo e «di natura infinito» pensiero ossessivo».

Sembra un dettaglio ma non lo è. Che l’interruzione, la lotta tra auto-scopia e ossessione, il paradosso di chiusura e apertura compresenti raggiungano anche il piano oggettuale, materiale, del libro è il segno tangibile della loro vitalità. La poesia si apre a Ottieri non semplicemente come area di sperimentazione formale (che non è data, o è data in misura minore, alla narrativa), ma – partendo da lì – come dimensione performativa, dove a essere performato è proprio il pensiero ossessivo. «Mortale è il rebus»: quella di Ottieri è una poesia del limite, si spinge fino al nervo della scrittura, lo torce e lo fa scattare, vede nell’andare a capo, nell’interruzione, la traccia più fedele della «psiche orripilata».

Antonio Francesco Perozzi

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