In questi giorni c’è stato un gran parlare di Roald Dahl, scrittore britannico che continua a vendere bene anche dopo la sua morte e che è entrato così a pieno titolo tra i classici della letteratura. Per assecondare la sensibilità della società odierna, l’editore Penguin avrebbe deciso di ritoccare alcune parole usate nei romanzi di Dahl con l’intento di renderle meno colorite e più digeribili ai lettori politicamente corretti, i quali non fanno mistero di offendersi per una parolaccia o un’espressione razzista. Il fatto che i libri di Roald Dahl siano rivolti a un pubblico giovanissimo, poi, non aiuta, perché le mamme moderne si dichiarano sempre più attente ai contenuti con cui entrano a contatto i loro figli, e si allarmano se appare qualche parolina un po’ ruvida. Secondo questo modo di vedere le cose, non starebbe bene usare termini come ciccione e nano, ma bisognerebbe ricorrere a espressioni come enorme e particolarmente basso.
Appena annunciata l’operazione di pulizia terminologica (o dovrei scrivere ideologica?), l’opinione pubblica è insorta, soprattutto per iniziativa di scrittori e intellettuali (uno tra tutti, Salman Rushdie) e l’editore alla fine ha dovuto fare una parziale retromarcia, annunciando l’intenzione di mantenere due versioni nel proprio catalogo: quella originale e quella epurata. D’altronde, la paura di essere boicottati da una larga fetta di lettori-consumatori, perdendo così dei guadagni, è troppo forte anche dinanzi alle aspre critiche dell’intellighenzia mondiale.
L’idea di “disinfettare” un testo letterario e privarlo di espressioni razziste, volgari e oscene non è cosa nuova, ma per capire a fondo il problema bisogna fare un passo indietro.
Chi studia i media sa che da sempre esistono delle spinte dal basso, a opera di gruppi mal rappresentati, che cercano di conquistarsi un’immagine migliore: l’uomo di colore, relegato al ruolo di cameriere, addetto alle pulizie o tutt’al più maggiordomo agli albori del cinema, diventa oggi il detective protagonista di New York Police Department. Questo meccanismo è noto nella teoria dei media come burden of representation, ovvero “fardello della rappresentazione”, e va di pari passo con il progresso della società: chi guadagna certi diritti sociali vuole giustamente vedersi rappresentato in maniera adeguata anche dai media. Ma il fatto che oggi Eddie Murphy e Will Smith abbiano ruoli da grandi protagonisti non vuol dire che dobbiamo buttare via un film come Casablanca solo perché una persona di colore faceva al massimo il pianista ed eseguiva gli ordini di Ingrid Bergman, che richiedeva di suonare una certa canzone mentre sospirava per qualcun altro.
Eppure la critica contemporanea non è esente dalla tentazione di giudicare e sminuire un film del passato applicando categorie valoriali del presente. Certo, oggi vorremmo poter assistere a una storia in cui Ingrid Bergman si struggesse per l’assenza di un uomo che avesse le fattezze di Samuel L. Jackson piuttosto che Humphrey Bogart, e che i pianisti che sbarcano il lunario al Rick’s Café Américain fossero dei caucasici bianchi somiglianti a Berlusconi piuttosto che uomini di colore come Dooley Wilson, per il quale non c’è posto nemmeno in terza fila sulla celebre locandina del film.
Come rimediare alla miopia caucasico-occidentale-suprematista-bianca? Si potrebbe rifare il film cambiando gli attori e ridistribuire più equamente i ruoli in base a etnia, aspetto, genere e colore della pelle. A volte è capitato anche questo. Esistono remake che rasentano l’assurdo, ma è un’operazione costosa e rischiosa, sia finanziariamente che culturalmente. Con un libro, invece, è tutto più facile: si smussano le parole, si tagliano certe scene pruriginose, si addolcisce una frase pur di andare incontro alle esigenze e alla sensibilità del nuovo pubblico. Ma quale pubblico, poi? E da dove viene tutta questa voglia di politicamente corretto?
Il “politicamente corretto” è sempre stato il cavallo di battaglia di quelle persone che si definiscono perbene, moderatamente progressiste (a volte esageratamente ipocrite), inclini a scambiare il rispetto per una cosmesi linguistica che si ferma al significante e non scava nelle profondità del significato. Di solito sono persone moderatamente istruite, che leggono pochi libri e che ottengono quasi tutte le informazioni dalla rete, anche se non sanno distinguere bene l’attendibilità di una fonte. E di solito non possiedono grandi nozioni storiche, non sanno cosa sia la storiografia e vivono in una specie di eterno presente, per cui, a loro avviso, Giulio Cesare, Topolino e Vittorio Sgarbi dovrebbero ragionare allo stesso modo. Non importa il tempo storico nel quale i personaggi sono calati: i seguaci del politically correct applicano lo stesso metro di giudizio a tutti quanti, a prescindere dalle coordinate geografiche e temporali.
Così facendo, mettono sullo stesso piano i Conquistadores del Sedicesimo secolo che colonizzavano l’America Latina e le multinazionali del Ventunesimo secolo che schiavizzano i lavoratori nelle fabbriche. Portato alle estreme conseguenze, questo ragionamento fa aizzare un odio smisurato verso personaggi storici che non avevano commesso nulla di male per i costumi del proprio tempo ma le cui gesta non potrebbero essere accettate se fossero vissuti oggi, e allora via a buttare giù le statue di Cristoforo Colombo, che inaugurò la ricca stagione dello sfruttamento latinoamericano, e giù anche i monumenti dell’era sovietica che furono eretti durante la guerra fredda nelle periferie dell’impero, da Riga a Varsavia, da Vilnius a Praga. Insomma, negli ultimi dieci anni si è assistito al sorgere della cosiddetta cancel culture, una forma di ostracismo che inneggia all’oblio e promuove il boicottaggio culturale di certe idee e certi personaggi, con gravi incursioni nel revisionismo storico.
Anche contro la cancel culture si sono scagliati molti intellettuali (giusto un paio di nomi, Noam Chomsky e Margaret Atwood) e non potrebbe essere altrimenti, visto che a promuoverla sono solo rancorosi gruppi di persone poco avvezze alla lettura di testi intellettualmente impegnativi e purtroppo appartenenti a qualche categoria marginalizzata.
La cancel culture è il morbo che sta cercando di irrompere nella sfera della cultura globale con l’intento di uniformare e revisionare le opere del passato, oltre che fare pressione sulle opere del presente. Il tentativo di ammorbidire Roald Dahl ne è un esempio, ma anche certi scandali Sanremesi di casa nostra sono il frutto di una pressione indebita su cosa sia giusto concedere a un artista anche su scala locale: basta una parolina poco gradita nel testo di una canzone, o un gesto poco rispettoso nei riguardi di chissà quale minoranza, per scatenare gli anatemi e i violenti richiami al politicamente corretto.
Ma come dicevo prima, i richiami alla correttezza vengono da un pulpito da cui si affacciano persone gravemente impreparate, carenti dal punto di vista intellettuale. Ne è testimonianza quella che a volte si palesa come un’imbarazzante assenza di logica. Faccio un esempio. A Roald Dahl si contesta il termine “ciccione”. In lingua originale, Dahl usa fat, cioè “grasso”. Ora, siccome la caccia al politicamente corretto e la cancel culture avvelenano tutti gli ambiti, persino le università, dove io lavoro e dove generalmente ci si aspetta che il cervello venga usato al meglio delle potenzialità, ammetto di seguire da vicino gruppi di studenti che si dichiarano marginalizzati e afferrano un megafono (Instagram, nella fattispecie) per spiegare a destra e a manca cosa sia giusto e cosa sia offensivo. Ebbene, in uno dei loro post più recenti, questi studenti affermano che non bisogna usare il termine “sovrappeso” (overweight), in quanto esso implica un giudizio negativo e un paragone implicito con ciò che è normopeso, e che in questi casi sia da preferire il termine “grasso” (fat), perché il grasso è appunto un elemento naturale e, di conseguenza, neutro (almeno secondo la loro logica).
Ecco che la cancel culture non si mostra né coerente né logica né omogenea: è un’accozzaglia di idee informi vomitate da bocche piene d’ira, visibilmente scollegate dal cervello: c’è chi dice che bisogna dare del “grasso” a una persona “sovrappeso” mentre qualche sodale suggerisce di eliminare l’aggettivo “grasso” dai libri di Dahl.
C’è infine un altro problema, ed è legato al diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero. Se io dico o scrivo A, nessuno ha il diritto di mettermi in bocca B, specialmente se ho usato la stampa per diffondere il mio pensiero. È un principio costituzionale comune a molti popoli. È un diritto universale. Le censure sono sempre deleterie: non rispettano la persona e non rispettano la memoria di chi non c’è più. Ce lo insegna un grande maestro come Milan Kundera, che nel suo capolavoro L’insostenibile leggerezza dell’essere metteva in guardia dalla mistificazione ai danni di ogni defunto già a partire dall’epitaffio sulla lapide, dove quasi mai si dicono cose corrispondenti al vero.
Narra Kundera: “Sulla lapide, sotto il nome del padre, fece mettere la scritta: Voleva il Regno di Dio sulla terra. Sa bene che il padre non avrebbe mai usato quelle parole. Ma è sicuro che la scritta esprime bene ciò che voleva il padre. Il regno di Dio vuol dire giustizia. Tomáš agognava un mondo nel quale regnasse la giustizia. Non ha forse diritto Šimon di esprimere la vita del padre con il proprio lessico? Non è, in fondo, da che mondo è mondo, un diritto di chi rimane?”
Ecco il punto: esprimere i pensieri degli altri con il proprio lessico. Esprimere il concetto di “grasso” concepito da Dahl con il lessico del lettore che arriccia facilmente il naso: il passo verso la cancellazione di Dahl è breve. Il vero Dahl è brusco, il falso Dahl è gentile. Se a prevalere sarà il falso e gentile Dahl, quello autentico non potrà che cadere nell’oblio.
Tra la mistificazione e l’oblio, Kundera ci avverte che esiste una tappa intermedia: il kitsch. Kundera ci invita a pensare a “un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch. […] [Il] Kitsch è la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile. […] Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore.
I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. […] Che è rimasto di Tomáš? Una scritta: Voleva il Regno di Dio sulla terra. […] Prima di essere dimenticati, verremo trasformati in Kitsch. Il Kitsch è la stazione di passaggio tra l’essere e l’oblio.”
Breve e triste chiosa a questa lunga riflessione: anche i romanzi di Ian Fleming, famoso per le storie di 007, verranno epurate da ogni termine che esprima una connotazione razzista. Qualche scotennamento era già avvenuto, col beneplacito dell’autore, nel passaggio dall’edizione britannica a quella statunitense, quando era andata perduta qualche scena di sesso che aveva per protagonista il nostro amato James Bond. Adesso il prossimo passo sarà quello di rinunciare ad alcune parole che tradiscono un certo atteggiamento nei riguardi dell’ideologia colonialista e che, filologicamente, confermavano i valori imperiali dei britannici fino alla Seconda Guerra Mondiale. Capisco che oggi solo uno psicopatico ricorrerebbe a espressioni come negro per alludere a un personaggio di colore; ma a chi quella parola l’ha usata cinquanta, cento, duecento anni fa noi non abbiamo il diritto di fare un processo. Cambiare oggi una parola di ieri è un po’ come rinnegare la Storia. E così oggi certi editori, in combutta con certi lettori, si organizzano per togliere tutti i negri da un romanzo, sperando che nessuno si ricordi più con quanta passione svolsero l’attività di negrieri i loro antenati.
Giuseppe Raudino
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