BEIRUT, 13/01/2023. Sua moglie Martine lo accusa di vivere nel passato e lui lo prende come un vanto. Me lo ha raccontato lui stesso, Antoine Kabbabé, seduti al tavolino di un caffè di Badaro. Accanto alle tazzine fumanti e alle sue mani incrociate e vissute, La dernière séance, la sua ultima scena, la memoria raccolta di un’epoca in cui Beirut splendeva e adesso non è – se non nella memoria. Me lo ha scritto, dedicandomelo: «À Valeria, je partage avec toi ce patrimoine qui n’existe plus que dans notre memoire. Antoine». Lo sottolineo: la nostra memoria. Non più a esclusiva della generazione che il Libano lo ha costruito, reso indipendente, abbellito di caffè e ristoranti, teatri, cinematografi, sale da concerto, alberghi di lusso, per poi dividerlo a pezzetti politici (a Est i falangisti, a Ovest l’OLP), a pezzetti religiosi (da un lato i cristiani, dall’altro i musulmani), a pezzetti che hanno presto smesso di avere una ragione, e hanno causato, in quindici anni, l’esodo di un milione di persone, la morte di 150.000, l’occupazione militare da parte di due potenze straniere, e la chiusura di 225 sale cinematografiche.
C’è un prima e c’è un dopo la guerra civile, in Libano. Prima: gli anni Cinquanta e Sessanta, l’età dell’oro, az-zaman al-jamil, come dicono in arabo. “Sono un libanese fortunato perché ho vissuto quegli anni”, confessa Antoine, “e posso testimoniarne”. Aggiungo io: è un libanese fortunato perché consapevole della ricchezza irripetibile di tale memoria. I libri scolastici interrompono la storia con l’indipendenza del Paese dal mandato francese, nel 1943: ma la storia dei cinema, sui libri di scuola, e dei caffè e ristoranti e dei teatri e degli alberghi di lusso chiusi per sempre dalla guerra civile, questa storia del Libano, sui libri di scuola non avrebbe comunque trovato spazio.
È la testimonianza della vita di prima che appartiene alle persone comuni, a coloro che hanno attraversato la grande histoire con l’inconsapevolezza svogliata di chi sopravvive alla catastrofe pensando alla cena; dei grandi eventi non percepiti se non con fastidio (uffa-chiuderanno-il-cinema-Cristal) o con entusiasmo (evviva-anche-oggi-non-si-va-a-scuola). Il passaggio graduale e mai netto verso il dopo. La memoria orale che non ci siamo premurati di trasmettere ai figli, talmente schierata e tagliente nella coscienza di chi di noi è sopravvissuto, di quelli che sono rimasti e di quelli che sono tornati. Eppure, mi racconta Antoine con le mani adesso sciolte ma sempre rugose, sempre vissute, e gli occhi increduli, per un po’ la gente ha continuato a vivere come se nulla fosse.
Mi mostra le immagini dell’Odeon, il Cairo, il Zahraa, il Métropole, il Diana, l’Empire a Downtown. Le Capitole, il Grand Théâtre, l’Opéra, il Rivoli, lo Sheherazade, a Bourj. E poi a Hamra, l’Etoile, il Montreal, l’Eldorado, il Clemenceau, Le Coliséè. E di ognuno una storia. Del Piccadilly ricorda la prima proiezione, era il 1965 e c’era Il dottor Zivago, o di quella volta che un bambino frignava, e la madre non riusciva a farlo calmare, e di quell’uomo dalla sala che le urlò di dargli del latte per zittirlo. E ride, Antoine, con quel misto di pudicizia e colpevolezza e terribile nostalgia.
Se lo stesso film veniva proiettato a Bourj e poi a Hamra, la scena cominciava con 45 minuti di ritardo perché le bobine venivano trasportate da due giovani in motorino che facevano la navetta tra le sale. E se capitava che per qualche ragione facessero ritardo – il traffico, o un incidente – gli spettatori iniziavano a lamentarsi. Il disturbo faceva parte dell’atmosfera: certo si andava al cinema per guardare un film, ma ci si divertiva, anche, e si socializzava, e ci si lasciava andare.
Le chahut faisait partie de la sortie elle-même. On visionnait bien-sûr un film, mais aussi, on s’amusait, on socialisait, on se lâchait.
«Mais le plus grand brouhalha, cris et sifflements était à la vue d’un french kiss ou d’une femme quelque peu dénudée». Il frastuono arrivava con l’erotismo. Eppure non mostravano niente, ammette. Lo hai visto Nuovo Cinema Paradiso, di Giuseppe Tornatore? Con il prete con la campanella, e la censura, tale e quale. Oppure: poiché l’inizio delle proiezioni era solito iniziare con les Actualités françaises, non era raro vedere certi spettatori applaudire nello scorgere sullo schermo il Papa o Charles de Gaulle; allorché gli altri raddoppiavano d’entusiasmo alla comparsa di Gamal Abdel Nasser. Già allora, prima della guerra, i cristiani e i musulmani avevano sensibilità differenti, scherza.
Eppure gli spazi erano condivisi, anche se le comunità separate, come quando una volta a settimana si andava da uncle George. Erano gli anni Cinquanta, e i film non si guardavano: si ascoltavano, il sabato pomeriggio, in radio. Erano film egiziani in cui si cantava e si suonava molto. Ma uncle George aveva un proiettore, lo affittava a 35mila lire libanesi, e nel suo salotto dai soffitti altissimi e le vetrate a sesto acuto si guardavano film con la famiglia allargata. Ai piedi della collina su cui sorgeva la casa, un campo di rifugiati curdi sopravvissuti alla Turchia. Un giorno, Antoine avrà avuto cinque o sei anni, uncle George era in ritardo, una bambina era venuta a bussare. Lesh, perché il film non è ancora iniziato? Laggiù stiamo aspettando. Decine di curdi, nel campo ai piedi della collina su cui sorgeva la casa mutata in cinema, sbirciavano quelle proiezioni attraverso i vetri. E condividevano.
Questa e altre storie all’interno della dernière séance, l’ultima scena di Beirut traverso gli occhi di un venticinquenne a cui è stato strappato il futuro e adesso, lo rimprovera sua moglie Martine, si ostina a vivere il passato. E lui, il venticinquenne che sta per compiere 74 anni, ne fa un gran vanto. In copertina l’immagine di un drive in a Tabarja, sulla strada per Byblos. Antoine ci andava spesso da ragazzino, a quindici o sedici anni, ci portava la sua fidanzata di allora, mi racconta, e vedeva tutte le macchine che traballavano, you know why? Mi chiede. The couples, you know, they liked to have fun. Alle coppie piaceva divertirsi. Me lo spiega con un misto di colpevolezza, imbarazzo e terribile nostalgia: lo sguardo di quell’adolescente a cui la guerra ha rubato l’imbarazzo, la colpevolezza e lo stupore, lasciandolo solo con tonnellate di hanin, la mancanza degli arabi. Tabarja, pagina 356 e 357. Prima e dopo. A sinistra, macchine parcheggiate dinnanzi al maxischermo con l’iconico volto di Robert De Niro in Taxi Driver. A destra, il cancello sbarrato di una caserma dell’esercito libanese. Si chiama, oggi, caserma Drive in, proprio così, in caratteri arabi e pronuncia inglese: «إن درايڤ», «draiv in». Fu un immigrato dal Venezuela che ebbe l’idea di aprire un cinema all’aperto: come primo nel Paese ebbe un tale successo, soprattutto tra gli innamorati, che ne avrebbero presto costruiti molti altri in giro per il Libano. Corre voce salace che gli spettatori non ci andassero per guardare i film proiettati, ma i tettucci delle proprie macchine.
Les blagues salaces couraient, comme celle de cette ingénue qui reprocha à son (un peu trop) tendre partenaire d’etre venue a voir un film et pas le plafond de la voiture!
63 luoghi, tra quartieri e città, fotografati: un prima e un dopo. La cesura non netta ma graduale si svolse attorno al 1975. 225 cinema. Oggi edifici abbandonati e decadenti. Cita Giuseppe Tornatore e il suo Nuovo cinema paradiso. Quando l’abbiamo visto, ci siamo detti, eravamo noi, era la nostra storia. Volevamo condividerla e non avevamo gli spazi.
La vita cinematografica libanese non si è interrotta con la guerra: si è trasformata, invece, poco alla volta. Dapprima spostandosi da quartiere a quartiere, allontanandosi dalla linea verde che nel quindicennio dal ’75 al ’90 divise Beirut Est da Beirut Ovest; poi trapiantandosi nelle periferie, in edifici sempre più grandi e brutali, più simili a centri commerciali che alla casa dei Kabbabé e dei curdi di uncle George. Questo libro, mi dice Antoine riaccartocciando le mani, è il frutto di un amore. Di un amore folle per il cinema. Non è un libro di storia convenzionale. È la storia dell’innamoramento di un uomo per la settima arte, il cinema che lo ha spinto per le strade del Libano a rovistare nel tempo e nello spazio alla ricerca di sale oscure spezzate. Di pepite di buonumore perdute. Di musica dei grammofoni e di prostitute e di innocenza mista a colpevolezza e a stupore. Del grido di qualcuno che dice a una donna di allattare suo figlio per zittirlo, mentre un ragazzo vende Coca Cola sugli spalti, e tu hai undici anni, e c’è odore di fumo pastoso, e scommetti sulle partite di pallavolo per guadagnarti le 60 piastre necessarie a un biglietto per una proiezione a Bourj il giovedì pomeriggio, demi-journée d’école à cette époque.
Valeria Rando
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