Architettura e urbanistica, ma anche impalcatura delle esistenze. Doveri di una costruzione di Davide Castiglione (Industria&Letteratura, 2022) raccoglie poesie suscitate da una partita in cui giocano lo spazio abitato, la vita inarrivabile degli altri e una lingua pronta a farsi schiuma, puzzle, architrave a seconda della situazione.
Cominciamo però dai temi. Doveri di una costruzione, del resto, appartiene a quei libri che, pure investendo parte importante del proprio sforzo nella manipolazione della lingua (come vedremo), non rinunciano al ruolo del contenuto, inteso come campo d’indagine del senso e come scenario finzionale in cui l’esperienza del lettore può compiersi. Qui sottolineiamo perciò una certa natura ipnagogica del libro, evocata d’altronde dal videogioco It’s winter di Ilya Mazo e Alexander Ignatov (cui fa riferimento, ci dicono le note ai testi, Mosse dell’appartamento): come nel videogioco il personaggio vaga senza scopo in ex quartieri sovietici, così il lettore nelle poesie di Castiglione – soprattutto nella sezione I progettisti – si introduce in aree dell’immaginazione realistiche, free roaming, entro cui non si trovano indicazioni chiare per l’orientamento (interpretativo, ad esempio): «La resina termoplastica dei gazebo / rilascia una nausea, nausea che pizzica. / Di eccezionale nel mio naso non c’è niente, credo, / così stordito, così incollato al telo. / Stessa cosa in quei salotti di vimini / che traspirano umidità / di oasi ridicole… dove d’infranto / non c’è niente, e di vissuto meno.»
Due osservazioni, da qui. Prima: che il contenuto di cui dicevo va inteso più in senso nudamente referenziale che sapienzale. Quelle di Castiglione sono poesie dell’osservazione, fanno emergere la natura già simbolica delle cose, più che simbolizzarla ulteriormente («Esci e nel farlo abbraccia quel che viene. / La barriera delle schiene ai tavoli. / La maglietta che hai, da quindicenne»). Seconda: da questa postura, i luoghi si offrono come dimensione concettuale prediletta. In quanto spazio esplorabile, in quanto allo stesso tempo geometria, storia collettiva ed esperienza individuale, i luoghi incarnano la possibilità di confrontare il singolo e il collettivo, l’umano e l’oggettuale, e infine splittare la costruzione del titolo tra organizzazione dello spazio e organizzazione delle vite. E ha ragione quindi Federico Italiano, nella postfazione, a dire che «Castiglione è architettonicamente kafkiano» e che si assiste, nel libro, all’«impasse ineludibile tra tensioni claustrofile da un lato e claustrofobiche dall’altro».
Nei luoghi di Doveri si misura quindi come «l’architettura e l’urbanistica, la geometria, fanno da contraltare all’entropia che domina la vita umana» (Matteo Cristiano[1]): «Siamo risucchiati come siamo / nel traghetto Spalato-Brač / imbarcano anche noi» (Spalato), «[…] Sei esile come il Vilnia // e questa brutale urbanistica il passo che hai / la rende irreale» (Užupis), «E Kaunas l’intraprendente ce l’ha, / l’asso ridicolo, la teleferica // che dalla miseria ti solleva / di un settanta metri» (Kaunas), «esperanto traslato in cemento / tabulato che interroga // e tu cosa rispondi / alla vita segmentata – all’agenda di strade» (New Town), «Niente di più triste della musica / nelle discoteche deserte: si sbraccia, / il morto di seghe vi entra, vi esce / che è adulto la stessa serata» (Copycat City). Una geografia frammentaria, quindi, personale costellazione di luoghi (o nonluoghi, come la falsa Venezia di Las Vegas), cui risponde un’antropologia altrettanto frammentaria; nel senso, però, di un processo in fieri (la costruzione) che sostiene e sfida contemporaneamente la tenuta del soggetto («allora arretro m’interro / nel cuscino, scompaio / da voi, non sono più sulla sdraio»). Come scrive Gerardo Iandoli, insomma: «ogni tentativo di poiesis, di fondazione di un nuovo mondo all’interno della poesia, viene frustrato dall’imposizione di schemi rigidi.»[2]
Ma è chiaro che una tensione di questo tipo non può che avere degli effetti sulla lingua. Oppure, complementarmente: Castiglione è bravo a progettare una lingua in grado di plasmarsi attorno alle situazioni e agli oggetti che vengono scelti, con il risultato di uno stile che si trasforma di continuo lungo il corso dell’opera. Due sono le bussole principali: da una parte la forma geometrica, la struttura stabile; dall’altra l’agitazione, la deriva. E quindi, come detto, architettura ed entropia. La prima si concretizza (soprattutto nelle più poesie brevi), in un discorso ordinato, con strofe ben scandite (a volte numerate), molto punteggiato ed eventualmente assonanzato («lei adesso veniva guardata in quel modo / veniva guardata con quei detriti addosso»), fedele a un ritmo non tassativo e però percepibile («A un certo punto gli occhi smettono di seguirti. / Ti preferiscono i cartelloni, la plastica dei sedili. / I geni incarcerati in me a un certo punto / salpano, mettono il tesoro in salvo / dall’ennesimo sfogo sulla pelle»). La seconda per contro tende al disordine, all’inafferrabilità (ritmica), e si fa vedere esplicitamente alla fine di Kaunas (che si chiude con sei parole fuori da ogni sintassi e spazializzate sulla pagina) e ancora di più nella sezione Giro dei rave ###. Qui Castiglione – che comunque è un poeta più vicino all’area della lirica che a quella della ricerca – raggiunge il picco di sperimentazione: Giro dei rave è un’odissea all’interno di un rave, appunto, raccontata in un blocco di testo con versi fortemente diseguali fra loro a livello di lunghezza, dove saltano le maiuscole (cioè, volendo, la gerarchia dei frammenti del discorso), la punteggiatura diventa precaria, le lingue si mescolano («è in questo locale amnesia / insomnia opium omnia / chablis echostage avalon eden / papaya panama kalypso / chroma aquarium / lux envy octava la fascia / una mantella zingara e chic») e soprattutto l’agitazione crescente (della musica, dei corpi, dell’estasi) è suggerita dal segno # che interrompe i versi tramite incursioni sempre più fitte.
Nonostante alcune parti molto caratterizzate nel senso della struttura o in quella del dèréglement, queste due prospettive sono per tutto il libro compresenti e in lotta fra loro (teste i piccoli flussi di coscienza a cui anche le poesie più ordinate alcune volte si aprono: «manca lo spazio per scopare / non sono mai singole le camere / si rilancia a Francoforte mesi dopo / e Francoforte mesi dopo / lui rose in mano involucro galante / lei girasole che segue il gps»). Come si capisce proprio da Giro dei rave, infatti, l’obiettivo di Castiglione non è la decostruzione completa dello strumento poetico, in cui invece si ripone massima fiducia: pure nel suo caos, Giro dei rave rimane un’operazione mimetica (o, ancora, ipnagogica), che si snoda in uno scenario riconoscibile; e i segni #, per quanto stranianti, sono connotati in un senso specifico (lo dice anche la nota a fine libro: «equivalenti di strappi o graffiti»), cioè decifrabili. Quella di Castiglione è quindi una poesia che “dice”, e la sua opacità, semmai, va cercata nella tensione interna al dire stesso, tirato da una parte dall’«eccesso del pensiero» (Vittorio Parpaglioni[3]), dall’altra da forti smottamenti (che riescono però a essere seguiti da una forma adatta a raccontarli).
Questo per dire, anche, che l’operazione di Castiglione ha una direzione precisa, per quanto agitata dalla realtà materiale (delle relazioni umane, dell’architettura, dell’autoriflessione) con cui la lingua deve confrontarsi. E tale direzione è l’alterità: la soggettività, per quanto problematizzata («questo mio stato incerto / incerto e neonato»), rimane il fulcro dell’esperienza del mondo, ed è solo a partire da questa centralità (per quanto porosa) che si capisce lo sforzo di scavalcarla («Ne uscirò impenetrabile, scosso, forse no. […] O forse sì, e piegheranno verso / una nuova / forma che mi costa / il travaglio di cento schizzi al carboncino / progressivi e numerati, prima che io rientri in me»), non in ottica oggettivista bensì di esperienza “allargata”, cioè solidale. Detto altrimenti: in quanto umano, ovvero in quanto animale sociale, l’io si trova all’interno degli altri individui, si confronta necessariamente con l’altro da sé; ma accanto a questa necessità subentra la possibilità (etica) di “entrare” nella vita dell’altro, di fabbricare una zona dell’esperienza in cui si incontrano ciò che dell’io può “staccarsi” dall’io per comprendere l’altro e ciò che dell’altro, in direzione contraria, può essere compreso.
Gli strumenti di questo ingresso nell’altro sono proprio quelli dell’immedesimazione poetica: qualcosa che ha a che fare sia con un’immaginazione abitabile (l’ipnagogia descritta prima: «Il proprietario / in sogno era uno squatter»), sia con la capacità della lingua di attivare precisi strati dell’esistenza. Ecco perché la presenza, fin dall’inizio, di molti personaggi: sono manifestazioni dell’alterità, che può essere chiamata per nome (Storia di Noam, Charlie, Dan…), ma anche colta nella sua indeterminatezza (figure indicate con «Uno» o «un altro»), ancora per quella dicotomia tra specificità e serialità di cui il luogo antropizzato (e postmoderno) è paradossale crasi. Il possibile di essere voi, come dice il titolo di una sezione, mi sembra allora la definizione più efficace: c’è qualcosa di misurabile, di architettonico (ancora) in questa espressione; non un’idea di empatia di basso mercato, bensì qualcosa di concreto, il disavanzo tra l’io-che-per-forza-sono e il margine di comprensibilità (fisica, quasi) di ciò che io non è eppure percepisco essere qualcosa, «creazione veniente». «Il passo deciso / da te verso lui / che fui io, che vengo respinto»: la costruzione, che «pesa, a volte», e che è insieme etica, fisica, sociale, esistenziale, linguistica, sta qui, in questo gazometro che si eleva sull’io e fa entrare l’altro.
Antonio Francesco Perozzi
[1] https://www.mediumpoesia.com/lettura-di-matteo-cristiano-a-doveri-di-una-costruzione-industria-letteratura-2022-di-davide-castiglione/
[2] https://www.argonline.it/doveri-costruzione-davide-castiglione/
[3] https://ilrifugiodellircocervo.com/2022/12/15/le-costruzioni-poetiche-di-davide-castiglione/
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