1969. Quattro amiche al college festeggiano il diploma e la loro amicizia promettendosi fedeltà e sostegno eterni. Molti anni più tardi, quelle donne conducono esistenze completamente diverse e divise. Il suicidio di una di loro fornisce l’occasione per ritrovarsi e, da lì, non lasciarsi mai più. C’è qualcosa, infatti, che accomuna Annie, Brenda ed Elise più di quanto le divergenze non le separino, ed è il fatto di essere state mollate dai loro mariti per donne più giovani. Loro li hanno amati, sostenuti, aiutati a diventare ciò che sono, anche finanziariamente parlando, e alla fine hanno ricevuto il benservito. Non è abbastanza per meditare una vendetta in grande stile?
Tratto dal romanzo omonimo di Olivia Goldsmith, Il club delle prime mogli non è solo una spassosa commedia, ma è anche un film sfortunato sotto due punti di vista: per prima cosa, perché è arrivato nel momento sbagliato, e in secondo luogo perché, come il titolo suggerisce, i suoi protagonisti non sono uomini. Quanto alla prima, i suoi natali nel 1996, nell’era pre-internet, fanno sì che non si trovi molto materiale in rete al riguardo. Avesse visto la luce ai giorni nostri, ci sarebbero molte più testate a riportarne trama e recensioni, con un corredo video e immagini di tutto rispetto che incentiverebbero la visione. Ma tra le opere rilasciate prima degli anni Duemila questa sorte tocca a un numero veramente esiguo, mentre di molte altre, pur pregevoli, non restano che poche tracce.
Complice anche una critica che non fu particolarmente lusinghiera nei confronti del film alla sua uscita. Gli addetti ai lavori si divisero tra quanti ritenevano che funzionasse alla luce dei criteri fondamentali (scrittura e interpretazioni), e quanti invece ne biasimavano proprio sceneggiatura e caratterizzazione dei personaggi. L’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes è in vero e proprio equilibrio tra le parti: cinquanta e cinquanta, tra positive e negative. Eppure, Il club delle prime mogli fu un successo di pubblico in quel lontano 1996, classificandosi come l’undicesimo maggior incasso dell’anno negli Stati Uniti.
Uno dei motivi del suo esito felice al box office (e su cui anche la critica concorda) risiede nelle performance delle sue protagoniste. Diane Keaton, Bette Midler e Goldie Hawn disegnano tre eroine moderne di cui ciascuna è a suo modo irresistibile, e tutte insieme formano un terzetto che meriterebbe un posticino nei manuali di comicità. Il più grande risultato che questo chick lit riesca a ottenere è l’amalgama tra tre grandi attrici (di cui due premi Oscar) che non prevaricano e non si oscurano, ma funzionano bene e meglio in compagnia scambiandosi di volta in volta i ruoli di spalla e interprete principale.
Il cast si arricchisce di altre succulente interpretazioni, in ruoli più e meno piccoli, dai premi Oscar Eileen Heckart, Marcia Gay Harden e Maggie Smith (qui squisitamente snob) a una Sarah Jessica Parker non ancora Carrie Bradshaw, nei panni di una sciocca e capricciosa arrampicatrice sociale, fino a Dan Hedaya, Victor Garber, Stephen Collins e Stockard Channing. Se dovessimo scegliere, per quanto sia difficile, la nostra preferenza andrebbe a Goldie Hawn e alla sua Elise, il cui arco narrativo si conclude con un’evoluzione in piena regola, che si gioca su livelli, personali e professionali, più complessi di quelli delle sue comprimarie.
Da alcolizzata a sobria, da rifattona incallita a individuo consapevole della propria età, Elise è responsabile di molte delle battute più spassose di tutto il film, quando non ne è lei stessa il diretto bersaglio – oltre a pronunciare una memorabile quanto spiacevole verità, secondo la quale a Hollywood esisterebbero soltanto tre età per le donne: gattina sexy, procuratrice distrettuale e A spasso con Daisy. Sembra che Elise abbia predetto il motivo per cui, da lì in poi, avremmo ancora faticato a prenderle sul serio.
Difatti – e qui veniamo al secondo motivo della sua sfortuna – vien da chiedersi che cosa ne sarebbe stato, di questo film, se invece di raccontare la storia di tre donne mature ci avesse portato nelle vite di tre scapoli di mezz’età. Bisogna ammettere che non ci sono molte commedie in circolazione che abbiano un cast a dominanza femminile (e che per giunta abbia superato da un pezzo l’età scolare), con conseguente spostamento della prospettiva dalla parte dell’altra metà del cielo. Invece dei bugiardi traditori, le consorti tradite. Al posto dei soliti combinaguai, delle donne che provano a rimettere in sesto le loro vite. Neanche oggi si vedono tanti film che possano vantare parentele con Il club delle prime mogli, che a sua volta poteva rivendicare la sorellanza con appena una manciata di titoli (di cui Dalle 9 alle 5… orario continuato sembra essere il più noto). La scarsa abitudine a prodotti di questo tipo, forse – e sottolineiamo forse – ci rende anche meno propensi a lasciarci coinvolgere, e quindi convincere – il che, quando si parla di commedia, significa ridere. Chissà che, se avessimo avuto più donne accanto ai vari Eddie Murphy, Jim Carrey e Bill Murray, Il club delle prime mogli non avrebbe potuto avere un’accoglienza diversa.
Ma se ci sono delle donne tradite, devono esserci anche i mariti colpevoli. Il club delle prime mogli nasce da lì, dall’intento di tre amiche di vendicarsi dei coniugi che le hanno sedotte per poi abbandonarle come da manuale. Capovolgendo l’immaginario tradizionale, il film si libera però dallo scomodo diktat di dover rappresentare le donne come degli angeli del focolare, rendendole non più sante della loro controparte maschile: facili ai vizi, dall’alcol al cibo, con difficoltà a relazionarsi coi propri figli, irascibili, egocentriche, violente, insicure e volubili. Se c’è un motivo – o anzi, due – per cui gli si perdona tutto questo, è che loro sono leali e dimostrano di voler cambiare. Il club delle prime mogli è figlio di quell’ondata femminista anni Novanta da cui sarebbero derivati ugualmente il riot grrrl di matrice punk e l’inno al girl power delle Spice Girls, tanto Thelma & Louise quanto Ragazze vincenti, sulla scia della consapevolezza che nessuna donna deve lottare da sola. Non è un caso che Annie, Brenda ed Elise capiscano che c’è qualcosa di molto meglio della vendetta, ed è la giustizia. Affinché nessun’altra donna sia più sola, come lo è stata la loro amica suicida, e come loro stesse sono state, decidono di spostare il loro piano su una scala più grande, come vi dirà quel finale che pure è foriero di momenti indimenticabili (il cameo di Ivana Trump che consiglia «Non prendetevela, prendetevi tutto») e che è un urlo alle donne, alla vita, al gioco di squadra. Insieme, si può vincere. E si è anche più divertenti.
Andrea Vitale
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