Racconto: Il cerchio perfetto – Nicola Argenti
Racconto: Milleuno
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Mio padre divenne il mio insegnante. Per sua natura era un uomo taciturno e severo. Aveva prestato servizio per trent’anni sotto la Regina, impegno gravoso che lo rese ancora più ruvido, brusco, risultando inoltre depauperato di quella poca pazienza che almeno gli si era potuta riconoscere nei tempi passati. Non gli si potevano trovare molti pregi, quantomeno in riferimento a quegli aspetti che di norma rendono una persona amabile o sopportabile, e ora aveva perduto anche l’ultimo. La rigidità dell’esercito e delle armi lo aveva contagiato al punto tale che avrebbe poi replicato quei metodi militareschi anche con me e mia madre. Ogni compito rassomigliava a una missione e – come tale – doveva essere compiuto secondo il metodo o la strategia che garantisse maggior efficienza e il risultato migliore. Nessuna pecca, solo il pieno successo poteva essere accettabile. Accettabile, senza sfarzi, senza festeggiamenti, fare bene era un dovere e mantenere un contegno era sinonimo di dignità, rigore e disciplina.
Un aprile tenue e sommesso fu il teatro del suo pensionamento anticipato, con lodevole servizio e un ginocchio frantumato da un proiettile, proteggendo il confine Nord. Ne ricavò un cospicuo sussidio a vita, una medaglia d’oro con lo stemma del Regno, la coccarda con i nostri colori e una protesi all’avanguardia, generata con una lega sperimentale di cromo-cobalto e tecnopolimeri, che gli avrebbe permesso di camminare normalmente e, nelle giornate buone, accennare una corsa.
Correva l’anno delle Olimpiadi e tutto il paese era in preda a un subbuglio entusiastico, quel fremito che attraversava anche gli animi più contriti per una quotidianità che – al contrario – aveva poco di entusiastico. Pure così si sopravviveva, e se piccoli cambiamenti o notizie fuori dall’ordinario, generavano quel lampo luminoso necessario a quel lieve rischiaramento della nuvolosa monotonia, immaginarsi quale effetto poteva sortire l’annuncio della più grande manifestazione sportiva!
Io non avevo mai avuto alcun interesse per queste attività e non sentivo quel sacro fervore dei miei compaesani, che quasi li faceva rassomigliare a chi fosse stato selezionato per partecipare; io decisamente no, non ero interessata. Troppo distante dal mio mondo, avevo altri fuochi dentro. Mio padre era di tutt’altro avviso e lo rese chiaro una sera, durante la cena. Interruppe il pasto – e già questo ci sembrò uno dei segni della fine del mondo – per annunciare qualcosa di importante.
Per un’intricata architettura di suggerimenti, conversazioni private, pacche sulle spalle e favori da restituire e, non ultimo, quel gesto di mio padre al confine che gli costò il ginocchio (e ancora oggi mi è oscuro cosa realmente si nascondesse dietro quel prodigioso sacrificio), per tutto questo, alla fine, con mio sbigottimento, venni selezionata come una delle atlete rappresentanti il Regno. Fu questo che annunciò mio padre, durante quella cena interrotta. Tu hai la mano ferma – disse con tono perentorio e inamovibile, senza degnarmi di uno sguardo benché l’affermazione fosse per me e me soltanto. Poi si sedette e ricominciò a mangiare, in silenzio.
Senza avere alcuna voce in capitolo né tantomeno possibilità di discutere la questione – non era concessa alcuna rimostranza – cominciai a studiare le varie discipline e la struttura delle gare, la progressione degli eventi e i luoghi di svolgimento, le distanze che mi avrebbero separato da casa, le eventuali semifinali e le finali, con quest’ultime che mi sembravano più uno scherzo che una reale possibilità. Nel perseverante tacere di mio padre al riguardo, cercai di capire per quale disciplina mi ritenesse così naturalmente idonea, focalizzandomi su quelle nelle quali l’uso delle mani – e in particolare di una mano ferma – fosse imprescindibile.
Non erano poi molte: Shangai bendato, Tiro al bersaglio con aghi di pino e il Cerchio perfetto.
Mi allenò per quattro anni filati, non un giorno di tregua. Avrei dovuto eseguire il cerchio perfetto entro la fine di quell’ultimo anno, per essere pronta impeccabile per le Olimpiadi. Il cerchio perfetto era la più antica e difficile tra le discipline “di precisione” e richiedeva null’altro che la perfezione. Faceva parte della cosiddetta Arte della Calligrafia, tradizione tramandata dalla famiglia reale da tempi immemori e – in seguito – praticata da tutti i nobili e le famiglie di alta casta. La tecnica venne affinata anno dopo anno, fino a divenire troppo ricercata anche per i reali, così incostanti nella loro pratica quotidiana. Divenuta vera dottrina, si pensò sarebbe stato più saggio che fosse preservata da pochi Maestri, praticata da allievi selezionati, lasciando che se ne discutesse solo negli ambienti intellettuali, contribuendo così a renderla ancora più elevata, venerata forma di raffinatezza, liturgica sotto alcuni aspetti. E io sì – era vero – ero portata, avevo la mano ferma.
Mio padre aveva un bastoncino di bambù, finissimo, che sibilava come il vento e con gli innesti che sembravano d’acciaio.
Con il passare del tempo e degli allenamenti, le mie mani si ricoprirono di lacerazioni e contusioni e del sangue rappreso colorava i miei cerchi imperfetti. Mia madre me le impacchettava ogni sera, per un’ora al massimo, con bende spesse di cotone dopo avermele ricoperte con una pomata oleosa fatta in casa e che odorava di lavanda azzurra e bergamotto selvatico. Le contusioni e i rossori si alleviavano, poi sparivano. Le cicatrici e i solchi no, quelli rimanevano e quasi potevo ricordare, per ognuno, dove e quando avevo sbagliato. La mia mano destra però era sempre ferma, ormai ero vicina all’eccellenza. Alla fine di settembre ci riuscii, chiusi quel cerchio, finalmente. Lo ripetei duemila volte, mio padre voleva assicurarsi che non si fosse trattato di un caso. Pochi mesi dopo la conferma della mia abilità, ci fu la cerimonia iniziale e le prime eliminatorie, seguite dalle gare per le qualificazioni ai quarti e poi alle semifinali. La mia mano sembrava viaggiare da sola, a tratti non la sentivo davvero una parte di me, come fosse fisicamente attaccata al corpo ma distante, senziente e autonoma, concentrata e implacabile. Mi ritrovai, senza accorgermene, in finale. Ultimo atto.
Ero la sesta, mi chiamarono sulla pedana, sbagliarono il cognome. Avevo sempre odiato i cerchi. La mano destra ora tremava.
Nicola Argenti, 44 anni, vive e lavora a Roma. Dal 2000 al 2002 è caporedattore di un giornale indipendente romano, KR, sul quale scrive articoli di attualità, cultura e disegna vignette. Nel 2003 fonda, con altri artisti, un collettivo poetico e organizza letture di poesie in diversi locali di Roma. Nello stesso periodo pubblica raccolte autoprodotte di poesia e narrativa e partecipa a pubblicazioni collettive con piccoli editori indipendenti e fanzine. Partecipa a concorsi letterari indetti da editori e associazioni culturali ai quali seguiranno pubblicazioni in antologie poetiche e, nel 2021, la pubblicazione del suo La Rosa nel Magma, Montag Edizioni. Nel 2022 viene pubblicato il suo secondo lavoro, una raccolta di racconti brevi e brevissimi e microstorie, dal titolo Di uomini e mostri – Brevi cronache dal mondo, Les Flaneurs Edizioni.