Racconto: Milleuno
Call
Quella mattina non andai a lavoro. Non ci andai nemmeno il giorno dopo, e gli altri successivi, ovviamente. Ero in strada già da mezz’ora, e aspettavo. Sapevo che sarebbe uscita a momenti, non poteva tardare. L’orario dell’appuntamento l’avevo scoperto leggendo il modulo che aveva nascosto nel suo cassetto, sotto calze e mutande. Quando lo presi in mano stentavo a crederci, mi venne voglia di farlo a brandelli e buttarlo nel cesso. Non lo so ancora come riuscii a trattenermi e a far finta di niente per più di una settimana.
Poi Miriam uscì dal portone. Si era raccolta i capelli in una coda. Indossava la giacca di jeans. Solo guardarla mi fece incazzare come non so cosa e in quel momento la odiai ancora di più. Lei si guardò attorno, aveva gli occhi duri, cattivi, ma non mi notò. Frugò un attimo nella borsa e si avviò. La osservai per un qualche istante, senza muovermi, dopodiché la seguii, lasciando tra me e lei una cinquantina di metri, forse anche di più.
Lungo il tragitto si fermò ed entrò in una farmacia, fui costretto a sostare in un bar finché non ne uscì. Nella metro dovetti fare attenzione a non perderla di vista nella calca. Là sotto c’è sempre un odore di gomma e sudore. Il treno iniziò a sferragliare, una folata di vento mi fece rabbrividire e mi strinsi nelle spalle per qualche istante. La voce impersonale dell’altoparlante annunciò la fermata. Mentre Miriam attendeva che i passeggeri uscissero dalla carrozza, stetti a fissarle a lungo la coda, poi mi riscossi e mi intrufolai veloce in quella accanto. Ero in fondo alla carrozza. Sollevandomi appena sulle punte, scorsi la testa bionda di Miriam, incastrata in mezzo a tante altre. Si reggeva a uno dei sostegni gialli e teneva lo sguardo basso. Per un secondo ebbi l’impressione che avesse cambiato idea, ma in realtà era solo ciò speravo.
Alla terza fermata Miriam svanì dalla mia vista. La cercai oltre il finestrino ma niente: magari s’era mischiata tra quelli che erano scesi. Dovevo uscire, così cominciai a urtare e spintonare gli altri passeggeri chiedendo scusa e sostenendo che quella fosse la mia fermata. Le porte però si chiusero intrappolandomi in quella stretta scatola puzzolente. Bestemmiai fra me e me e pensai che forse Miriam fosse scesa lì per proseguire in autobus. Mantenni il controllo e mi rassicurai ripetendomi che l’avrei intercettata, convinto che sarei arrivato prima di lei in ogni caso. Ma spostandomi a un tratto sulla destra, la scovai: stava seduta nel posto più vicino alle porte. Aveva sempre lo sguardo infossato e quell’aria strana, ansiosa. Io invece mi tranquillizzai.
Scese alla fermata che avevo previsto. Tenevo sempre una certa distanza e l’accorciai solo quando ci ritrovammo su in strada. Da lì immaginai che avrebbe continuato a piedi – e fu davvero così. Camminava spedita ma la mia andatura non aveva alcun problema a conformarsi alla sua.
Quando svoltammo, l’ospedale ci sovrastò per la sua altezza. Distava ancora duecento metri. Miriam tagliò passando per il parcheggio, ma a quel punto alzai il passo, senza preoccuparmi più di nulla. Mi riconobbe e si affrettò, ma in poche falcate la raggiunsi afferrandole il polso. Lei si sbracciò ringhiando e si liberò. Le urlai che sapevo tutto, che non ne aveva il diritto, perché quello era pure mio figlio, che era un’assassina di merda e che se si fosse azzardata a farlo l’avrei ammazzata con le mie mani. Miriam tornò imperterrita sui suoi passi, allora la tirai per la coda e la sua testa si rovesciò indietro. Mi diede un calcio e la mollai, mi gridò che ero un figlio di puttana e mi sputò in faccia. L’afferrai per il collo e le diedi un ceffone che il secondo dopo le fece sanguinare il naso. Un vecchio accanto alla propria auto minacciò di chiamare i carabinieri, gli risposi di farsi i cazzi suoi e andarsene affanculo se non voleva prenderle anche lui e quello non se lo fece ripetere.
Dissi a Miriam di lasciarmi dare un’occhiata al naso, ma quando allungai la mano me la schiaffeggiò sporcandomela di sangue, dopo si accovacciò a terra e si mise a piangere. Mi sedetti, le avvolsi le spalle, lei si rannicchiò tutta e me la strinsi al petto. La sentivo singhiozzare e la implorai di perdonarmi, per quattro volte, e le giurai che non l’avrei picchiata mai più, perché mi conosceva, avevo perso la testa solo per un attimo, ma adesso era tutto a posto, tutto finito. Piansi anch’io e la baciai sulla bocca che sapeva solo di sangue.
Quella sera mangiammo la pizza, guardammo la tv e alla fine ci coricammo sul letto. Mentre stavamo sdraiati le accarezzai piano la pancia. Le sussurrai che desideravo tanto che fosse una bambina, che sarebbe stata uno splendore, e aggiunsi che il nome l’avrebbe scelto lei. Miriam invece replicò che l’avremmo deciso insieme, che era giusto così, e mi sorrise in un modo che non sono mai più riuscito a strapparmi dagli occhi. Poco dopo, fissando la punta del suo naso, divenni tutto a un tratto serio e dubbioso. Mi domandai come avessi potuto perdere il controllo e farle del male. Stavo per staccarmi da lei, perché non mi sentivo degno di starle accanto, di essere il suo uomo. Miriam però mi scrutò fino in fondo agli occhi, mi accarezzò la guancia, i capelli, e posò la testa sul mio petto.
Ci addormentammo a cucchiaio.
La mattina dopo mi svegliai solo nel letto. Passai davanti al bagno e andai a preparare il caffè. Chiamai Miriam per chiederle se volesse una tazza, ma non rispose. Bussai alla porta del bagno, provai a entrare: era chiusa a chiave. Fu allora che cominciai a urlare e a dare pugni come un pazzo furioso.
Quando la polizia sfondò la porta, la prima cosa che vidi fu il flacone. Qualche altra pillola sul pavimento. I suoi piedi invece sporgevano scomposti dal box doccia.
Restai in camera da letto mentre gli infermieri caricavano il corpo sulla barella.
Matteo Romano è nato nel 1989 ad Altamura (Ba), ma ha sempre vissuto a Matera. Conseguita la maturità classica, si trasferisce a Parma per studiare giurisprudenza, facoltà che abbandona a pochi esami dalla laurea. Ha pubblicato il romanzo Le porte (Nolica Edizioni) e racconti su Blam, Salmace, Quaerere e Offline.
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