Un’identità nazionale: viaggio nell’horror italiano, pt. 4
Quarta puntata della nostra inchiesta sul cinema di genere e horror italiano contemporaneo
Gli attori possono contribuire a rendere un film invitante alla grande pancia del pubblico? È una domanda che scorreva sotterranea tra le righe dell’ultimo articolo, in cui parlavamo della frequenza con cui l’horror italiano è sempre ricorso a nomi stranieri in vista di una distribuzione internazionale. Tuttavia, la risposta non è affatto scontata, soprattutto se spostiamo il discorso su una prospettiva interamente italiana. «A causa del nostro prolungato allontanamento dal cinema horror italiano, abbiamo maturato anche un pregiudizio verso i nostri attori in un certo tipo film» sostiene il regista Domenico de Feudis[1]; il suo primo lungometraggio, Il legame, ha per protagonista Riccardo Scamarcio, che rappresenta una delle rare circostanze in cui un interprete di spicco si sia cimentato in un film di genere negli ultimi anni. Purtroppo, siamo così assuefatti a vedere gli attori calarsi in vesti ricorrenti che non è neanche detto – aggiunge de Feudis – che se uscisse un film di genere con un cast all star il pubblico si fionderebbe a vederlo. D’altronde, «c’è una disabitudine generale nel nostro paese verso l’horror, che viene ancora considerato come un cinema di serie B, per cui anche gli stessi attori a volte sono restii ad accettare».
Difatti, non sono molti gli attori italiani di prim’ordine che si vedano in un film horror o di fantascienza. Negli ultimi anni abbiamo assistito a qualche notevole eccezione: non soltanto Scamarcio, ma anche Stefano Accorsi, Carolina Crescentini e Kasia Smutniak[2] sono stati tutti protagonisti di film di genere recentissimi. I casi, però, sono ancora pochi per permetterci di parlare di una vera e propria inversione di tendenza. Il fatto è che «è difficile trovare attori italiani di rilievo che si prestino a un horror anche perché ognuno è legato al proprio pubblico», commenta Marcello Aguidara[3]. Cioè, una volta che un attore viene identificato con la commedia o con il cinema d’autore, è raro che si cali in un ruolo che vada in controtendenza rispetto all’immagine che, seppure involontariamente, si è costruito. Perciò, «anziché ingaggiare attori non professionisti o poco famosi, spesso si ricorre a nomi stranieri».
L’abitudine di avvalersi di interpreti stranieri nei film di genere è avvalorata inoltre dalla necessità di rendere appetibile il prodotto anche all’estero, dove il pubblico può essere attratto dalla presenza di un connazionale nel cast, specialmente se mediamente famoso; per non parlare del fatto, poi, che un attore madrelingua rende il film più competitivo nel proprio paese d’origine, rispetto a un attore che reciti in una lingua che non è la propria, magari con risultati non sempre eccelsi.
Viene spontaneo, a questo punto, domandarsi se non sia più facile, o addirittura auspicabile, per un regista italiano di storie di genere girare i propri film all’estero. Di certo, esistono vantaggi di natura economica, come conferma Filippo Santaniello[4], dalla cui penna sono nati film realizzati in paesi in cui era possibile abbattere i costi di produzione (uno di questi, Kidnapped in Romania, diretto da Carlo Fusco, vanta nel cast Michael Madsen e Paul Sorvino). Tuttavia, trasferire l’attività all’estero può comportare anche effetti indesiderati. Innanzitutto, trovare un produttore straniero interessato a finanziare la tua storia non è più semplice che trovarlo in Italia, «a meno che tu non sia Sergio Leone», ironizza Ascanio Malgarini[5], il quale ricorda giustamente anche un rischio che si incorre con le grandi produzioni, e cioè quello di perdere il controllo del prodotto.
Non è una novità che alcune grandi società di produzione impongano dei vincoli alla realizzazione: «Quando Netflix, e in misura minore anche Prime, dà la sua approvazione, mette dei paletti da un punto di vista produttivo, come sulle camere da utilizzare in fase di ripresa, perché il prodotto finale deve essere compatibile con il maggior numero di dispositivi, compresi quelli mobili» ricorda ancora Aguidara; ma questa supervisione condiziona anche il processo creativo, per esempio con l’imposizione di elementi che soddisfino criteri in materia di inclusione.
Da un altro punto di vista, non è detto che autori e registi desiderino per forza spostarsi fuori dall’Italia, per ragioni che possono essere affettive e culturali. Non è un caso, infatti, che molte storie raccontate dal cinema siano profondamente legate al contesto italiano e nascano dalla volontà di parlare del nostro paese, attingendo proprio all’immenso repertorio narrativo nostrano. «Quando abbiamo scritto Ipersonnia [co-sceneggiato con Enrico Saccà, ndr], non abbiamo pensato di costruire un progetto a tavolino per piacere all’estero o a qualche target in particolare, ma ci siamo concentrati sulla storia che volevamo raccontare. Credo che se si rincorrono troppo da vicino un certo tipo di estetica e di schemi narrativi d’oltreoceano si rischia facilmente di scadere nei peggiori cliché. Perciò preferisco seguire il consiglio di riferirsi a una realtà che si conosce più da vicino. Secondo me si possono raccontare delle belle storie di genere che siano radicate nella realtà italiana». Le parole di Alberto Mascia[6] ci conducono dritti al punto, ovvero alla possibilità di rinnovare il cinema di genere restituendogli un’identità marcatamente nazionale. Per esempio, attingendo proprio all’immenso patrimonio di storie, miti e tradizioni di cui il nostro territorio è ben provvisto, e che in larga parte sono ancora inutilizzate.
È quello che è accaduto negli ultimi anni, tanto per citare alcuni titoli, con A Classic Horror Story, che ha messo in piedi un’intera narrazione a partire dalla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, oppure con Pantafa di Emanuele Scaringi, ispirato a una figura demoniaca del folklore abruzzese e marchigiano. Ma anche con il già citato Il legame, che trae linfa dal concetto di fascinazione e dalle credenze magiche del sud Italia. «Le storie che scrivo le sento in qualche modo vicine, come nel caso del Legame, perché si tratta di cose che respiravo da piccolo, quando c’era la vicina di casa che sosteneva di poter togliere il malocchio o rimuovere i vermi dalla pancia. Queste storie sono ancora vive nel meridione» ci racconta de Feudis.
Si tratta di una corrente, nel cinema horror italiano, che ha un illustre precedente ne La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati e che trova la sua ideale dimensione nelle ambientazioni rurali e del mezzogiorno. È qui che nascono e si tramandano tuttora le storie di janare, le famose streghe delle campagne irpine e beneventane, o i succubi, demoni che compaiono spesso in sembianze femminili, o persino la famosa Befana: questi e altri sono protagonisti delle storie che da secoli sopravvivono in tutta la penisola, e che la letteratura e il cinema stranieri hanno già abbondantemente saccheggiato. E intanto noi, il popolo che ha creato quest’impianto mitologico, restiamo a guardare. «Il panorama italiano è poco sfruttato, non solo quello paesaggistico, ma anche quello narrativo» aggiunge Malgarini, secondo il quale «abbiamo delle storie bellissime della tradizione popolare che rappresenterebbero un punto di partenza originale, perché non esistono in nessun’altra parte del mondo».
Potrebbe essere, questa, la strada giusta per rimettere l’Italia in carreggiata e spalancarle di nuovo e le porte per l’affermazione (anche) all’estero. Del resto, i racconti del folklore popolare hanno sempre esercitato attrattiva sul pubblico vicino e lontano, curioso di scoprire una cultura sotterranea e penetrante, e magari anche cosa si nasconde di vero in quelle storie terrificanti. Esattamente come quando siamo spinti a guardare gli horror asiatici dall’attrazione verso civiltà remote e dal gusto per l’esotico. Al contempo, siamo convinti che davanti a noi si presentino molteplici possibilità, delle quali parleremo però la settimana prossima.
Andrea Vitale
[1] Domenico de Feudis è regista e autore de Il legame, film horror del 2020 scritto insieme a Davide Orsini e Daniele Cosci e distribuito da Netflix, dove è tuttora disponibile.
[2] Rispettivamente, Stefano Accorsi in Ipersonnia di Alberto Mascia (2022), Carolina Crescentini in Letto numero 6 di Milena Cocozza (2019) e Kasia Smutniak in Pantafa di Emanuele Scaringi (2023). Lo stesso Scamarcio è stato anche protagonista di un gangster movie, Lo spietato di Renato De Maria (2019).
[3] Marcello Aguidara è redattore di Nocturno, la principale rivista italiana dedicata al cinema di genere. Come si legge nella bio sul sito della rivista, è autore di sceneggiature per la tv e per il cinema e ha lavorato al montaggio di documentari, reportage e videoclip.
[4] Filippo Santaniello, sceneggiatore, tra le varie opere è autore di The Slider, arrivato secondo all’Amsterdam Film Festival e menzione d’onore ai California Film Awards, e Fade Out, attualmente disponibile su Prime Video.
[5] Ascanio Malgarini è regista, produttore e CEO di Goood s.r.l., società di product design e servizi audiovisivi. Insieme a Christian Bisceglia, ha diretto Fairytale e Cruel Peter, entrambi disponibili su RaiPlay.
[6] Alberto Mascia è regista di Ipersonnia, di cui è anche sceneggiatore insieme a Enrico Saccà. Il film è attualmente disponibile su Prime Video.