Preparo la vasca, la riempio fino all’orlo, dove il segno del calcare è una linea grigia, sfumata di verde. L’ombra dello scolo sotto il rubinetto delimita il livello oltre il quale l’acqua traboccherebbe. Tre dita sotto il bordo, non di più. L’identica misura che stimo per la casseruola in cucina, i litri giusti. Lascio che il getto scorra ancora un po’, poi chiudo, anche se vorrei allagare il pavimento del bagno di una cascata di schiuma: la fotografia del mio piano cottura quando le bolle si cristallizzano sul fornello, e sa di bruciato, e devo grattare forte per togliere le croste di amido. Riempio fin lì, dove i peli pubici di Luca, sui bordi di vetroresina, si sono appiccicati. Mi immergo, adagio, l’acqua bollente è opaca di sapone, è olio da frittura, sembra smussarmi le curve, sciogliermi i fianchi. Brucia, i brividi si mescolano alle bollicine roventi che sfrigolano intorno alle gambe, alle cosce, alla pancia, percorrendo il perimetro del mio corpo, come a voler fondere le mie rotondità. Ma la reazione mi sta liquefacendo solo all’interno. La scocca è compatta, indurita, i tagli bruciano prima sulle nocche, poi sulle dita fino a rendermi un involucro croccante con le viscere congelate.
Sabato diciotto settembre, ore otto. La via precisa non mi è chiara, però so che devo scendere tre scalini, percorrere il corridoio di sinistra, non quello di destra, superare la terza porta ed entrare in quella con la targhetta dorata, civico numero 66. Affondo tutta, i capelli a raggi, e sfido l’apnea. A volte provo ad annegare. Da sotto conto le gocce rimbalzare, conto i battiti. Un respiro dura tre battiti. Se lo trattengo, sempre tre battiti. O più. Il diaframma trema invece di salire. Le costole della gabbia toracica si stirano a trave. Il respiro si sta esaurendo, affiorano le ginocchia piegate, boccagli in superficie. O il dorso di un coccodrillo, pure lui, il sangue freddo, fame di polpa. Ti scuoieranno coccodrillo, ignoreranno le tue lacrime coccodrillo.
Esci. Il tubo dello scarico gorgoglia. Esci. La ventola della stufetta impreca. Esci. L’unica lampadina accesa della plafoniera sfavilla. E s c i. Sono ancorata al fondo. Apro gli occhi: bruciano. La vista si annebbia nella lente d’acqua che fa sembrare tutto più grande. Mi invento un paio di branchie e boccheggio. Boccheggio e conto. Ambisco l’asfissia per il tempo di un orgasmo. Trenta secondi, al massimo. Forse di più, se faccio finta.
Da quando Vanessa è entrata in coma lo faccio spesso. Sua madre ha smesso di lavorare per badare a lei. Al suo corpo clinicamente vivo. Le crescono le unghie, mi ha detto. Le crescono i capelli, le viene il ciclo. Da undici anni, a una salma, viene il ciclo. E a volte muove gli occhi. All’inizio i medici dicevano Parlatele, io le accarezzavo la mano bianca, appena livida, Tranquilla, non lo diremo a nessuno. La sua mano, chiusa, liscia, molle come una fettina di pollo. Le è cresciuto il seno in questi anni di riposo, raccontava sua madre. Riposa. Vanessa riposa, diceva sua madre. Sua madre e il patto col diavolo, Lasciamela ancora. Semiviva, purché con me, amore di mamma. Il viso incerato di una statua, incipriato e disinnescato di alcuna espressione. Sulle labbra cianotiche, piccoli tagli e aloni biancastri: odorava di crisantemi e naftalina. Avevo smesso di farle visita dopo qualche settimana benché sua madre mi telefonasse ogni giovedì pomeriggio, Non vieni a trovarla, oggi? Quando smisi pure di risponderle al telefono aveva preso a mandarmi foto. Scatti di ritratti post mortem d’epoca vittoriana, il corpo da farlo sembrare vivo. Tranne gli occhi. Sempre chiusi. La vestiva di tutto punto, una bimba pronta per andare a una festa di compleanno, Guarda quanto le dona questa camicetta a roselline. Non vieni a trovarla, oggi? Non vieni a trovarla, oggi. Un manichino in vetrina, era. Una delle ultime volte sua madre ci aveva lasciate sole in stanza, come da bambine, nella sua cameretta con le mantovane delle tende azzurre. Io le avevo detto Svegliati, che cazzo fai. Avevo scosso il filo del macchinario che la faceva respirare, Smettila di fare finta! La scuotevo per le spalle, ma la testa le cadeva indietro, era quella di un neonato. Allora mi ero sfilata un orecchino, della punta ne feci uno spillo: mi piegai su di lei, iniziai a rigarle la pelle del viso, ma non si tagliava, allora spinsi sul collo, più volte, i segni erano un’opera di impressionismo. Non mi bastò: così mi diressi lungo la via della giugulare, e la infilzai prima piano, poi più forte, volevo vedere cosa succedeva. I tessuti facevano resistenza. La punta rimbalzava tra le ghiandole e i linfonodi penetrando a fatica nella pelle. Pelle di caucciù. Una bambola cresciuta in camicia da notte. Non si era mossa. Non aveva sentito male, e nemmeno era morta. Oppure sì, cazzo, era morta? Era morta! Decisi di farla crepare nella mia testa. Il funerale, Addio Vanessa, bella addormentata. La pellicola della nostra infanzia, Mi mancherai tanto. Le corone di fiori, Di che colore erano i tuoi occhi? Splancali adesso se sei viva! Poi l’ultimo saluto al feretro, calata nel condotto dell’oblio, Dimentichiamocelo, Vanessa, come è andata quella sera.
Riemergo. Ho le ciglia incollate come se avessi pianto, gli occhi si liberano dell’acqua che li ha bendati, e mi rivedo a malapena riflessa, la testa allungata, deformata nell’acciaio del rubinetto. Sento che sto per perdere i sensi, la pressione bassa, il vapore, la condensa, la tachicardia. Però sono sopravvissuta alla prova. E mi ricordo di essere viva. Sono viva, perché? Per i piedi, ora, bollenti; per l’unghia dell’alluce, nera, nell’angolo, dove si riempie dei resti dei calzini scuri. O il tartaro sui denti, sono una fabbrica di tartaro, io: se non me li lavassi con prepotenza compulsiva avrei le gengive scalzate del beone che gioca alle slot del bar della stazione. Sono viva della paura di morire. Viva. Perché. Sabato diciotto settembre, ore otto. L’unione organica di due stati puri. Mancano pochi giorni. Mi ha chiamato Giusi poco fa, ha garantito per me, per partecipare ci vuole una selezione, sono una per bene, ha confermato. Non darò problemi.
Tu ci sarai?, le chiedo. Tu ci sarai, vero?
Credo, non so ancora. Sai, i figli, il lavoro, le cose.
Che vuol dire?
Da quando ho deciso, il modulo giace sul tavolo, è un forse tra le certezze dei miei debiti aperti. Una possibilità sospesa tra le bollette arretrate che devo ancora pagare. Lo devo compilare, posso decidere di firmarmi con un altro nome, c’è scritto. Potrei restare anonima, se volessi, ma l’indirizzo di casa lo devo specificare. Le righe fitte, gli spazi tra le parole sono nulli, la crenatura dubbia. Una serie di domande sulle mie attitudini, sul mio rapporto con il cibo e l’arte. E poi se do il consenso a essere fotografata.
Esplichi qui di seguito le ragioni che la spingono a partecipare (max 10 righe)
Dieci righe. Dieci righe non bastano nemmeno per fare un riassunto del principio attivo delle mie gocce. Dieci gocce. Dieci righe. Chissà se sarò ancora viva, sabato. Sabato diciotto settembre, ore otto. Sabato, domenica, lunedì, martedì e così via. Una pratica sacra, una celebrazione alchemica del nostro io più puro.
Chissà se sarò ancora viva. Dieci righe del mio tema alle elementari. Dieci fottute righe delle mie gocce e del mio medico, Le scaleremo a poco a poco. È solo Xanax. Lo prende anche la signora del piano di sopra, che era una professoressa dell’università. È solo Xanax, traviso, lo prendo per dormire. Quindi afferro la biro, la punta incrinata sborda di inchiostro blu. Mi macchio le dita. Quanto adoro il blu oltremare! Quanto adoro le tracce, uscire dai bordi, le cose rovinate, le cicatrici. Le mie impronte sul foglio, le creste e i solchi dei miei polpastrelli sono il sigillo di un giuramento, sangue color cobalto, ma per niente nobile, lividi a pennellate, stampi di orme maldestre che non si possono cancellare. Non posso più tornare indietro.
E quindi, dicevo, afferro la biro e faccio un disegno di me. Del mio corpo stilizzato, a forma di pera. Cosa vuoi scrivere in dieci righe? Solo fronzoli, orpelli, io che sono prolissa, fuori tema dai tempi delle superiori. Sapevo fare infiorettature e unire bene il corsivo. Anche la b con la r.
Al telefono è mia madre, le rispondo solo dopo che ho finito lo schizzo. Dice che sabato è il compleanno di papà, Non puoi mancare, lo abbiamo sempre festeggiato insieme. Sì, insieme, quando lui beveva dietro l’antina e nascondeva la bottiglia in fondo, tra l’aceto e il secchio della spazzatura. Insieme anche quando aveva perso il lavoro per colpa dell’alcol e si era ripulito che io ero già fuori casa. Almeno non mi picchiava, risponderebbe mamma se le dicessi ciò che penso della dipendenza di mio padre. Crede ancora nel potere dello stringersi insieme, la panacea universale alle debolezze passeggere, ogni famiglia ha un batacchio, si dice così. La si supera con la fede nel Signore, restiamo uniti, e le preghiere. Le preghiere che non resusciteranno Vanessa. Forse perché non è ancora morta. Forse perché il letto dell’ospedale elettrico, ergonomico, regolabile con sistema di pesatura e le sbarre amovibili, il letto d’ospedale di Vanessa, confortevole per il coma cerebrale, la custodirà ancora per anni. Oltre gli undici in cui si è trascinata. Vanessa, e i suoi capelli fini. Sabato diciotto settembre, ore otto. Celebrare la vulnerabilità, l’espansione e la connessione, per trovare il nostro io più puro, trasformato. Non ci sono, mamma. State insieme senza di me.
Fuori il vento zufola e fa saltare gli antifurti. I cani ululano, si fingono lupi al cospetto di un accenno di luna incastrato tra le nuvole. Ululano alle ambulanze mentre i clacson fremono ai semafori. L’asfalto si fa viscido ora che mi accorgo: piove da un po’. Mi trascino sulle pattine che raccolgono capelli e polvere e briciole, mi affaccio alla finestra chiusa. L’aria della cucina sa di brodo di carne. Appanno il vetro del mio alito umido e caldo. Nel mio fiato, la prova che anche oggi ce l’ho fatta a sopravvivere. Oggi, toccando la portiera dell’auto e una coperta sintetica, sono diventata una scossa. E l’altra sera, scuotendola, la trapunta ha sfavillato di scintille elettrostatiche rapide. Sono viva. Là fuori, nella grande città che si srotola tra controviali, ospedali e zone a traffico limitato, le tapparelle si chiudono. Seguono un ritmo tutto loro e ce n’è sempre una, la prima, che dà il segnale a quelle degli altri appartamenti. Abbassandosi le serrande fanno lo stesso rumore dei denti digrignati. Lo so perché la notte sento i miei che si sfregano intorpidendo le mandibole. Tengo le luci spente sennò mi guardano in casa, e sono in accappatoio. Mi avvolge il primo buio della sera, e mi faccio invisibile. Sono più invisibile della prostituta che laggiù, sul ciglio della strada, cerca riparo dall’acquazzone spingendosi contro il muro, sotto il cornicione. Chi se la carica una troia infradiciata?
Le ombre del mio corpo si delineano meglio ora che i lampioni sono entrati in servizio, pure loro. Fino a domattina il guscio metallico in cima al palo sputerà sui cassonetti dell’immondizia un cono di luce arancione. Torno in bagno tra i vestiti sudati stramazzati in terra, mi rivesto trascinandomi sugli asciugamani distesi intorno alla vasca. Il lavandino è un altare di rossetti consumati, profumi nauseanti, e di acetone per levare lo smalto. Respirarlo mi dà sollievo. Anche le compresse dimagranti mi danno sollievo. Mi dà sollievo tutto ciò che è una promessa mancata. Pure quelle di Luca. Anche se ormai ci sono abituata. Sabato diciotto settembre, ore otto. Tutti i corpi sono i benvenuti. Gli ho chiesto se vuole accompagnarmi, ma per lui è una cosa da dandy. La vede come una stravaganza del momento. Vacci da sola, non sarà la fine del mondo. E poi mi ha detto, Tranquilla, prima passo a salutarti. Scoperemo, e lui tornerà da sua moglie.
Oh, suvvia, dillo bene. Non essere volgare, sei andata a scuola dalle suore, te lo sei scordata?
Faremo l’amore, mi ha detto. Staremo a letto insieme, la sua fissa per il sadomaso, e tutte quelle cose che solo a me chiede. Solo dopo, mi ha detto, solo dopo potrò andare al mio impegno. Al mio impegno che costa ottantotto euro. Tra due giorni e mezzo. Sei pronta? mi chiedo. Il monologo non si esaurisce alla prima sigaretta che stasera, come spesso accade, surroga la cena. Latte e biscotti, di solito. Una scatoletta di carne in gelatina, se ho più fame. Se ho più fame, la carne mi sazia. Se non voglio morire. Di fame o altra causa. La carne mi salva. Un mese fa, ho preso appuntamento dal dermatologo. Dopo aver aggiornato i miei dati, mi ha chiesto di spogliarmi per il controllo dei nei. Ne ha contati novantadue, tutti a posto, ha percorso ogni centimetro del mio corpo con un aggeggio che faceva una lucina abbagliante sulla pelle. Limiti più che può i raggi UVA, mi ha detto. Si riferiva alle lampade abbronzanti. Una a settimana è troppo, è pericoloso, ha ribadito. È pericoloso, sì, scongiurare la morte così. Non si esorcizza la paura di morire chiudendosi in un tubo di luce blu, fatto a bara, in cui gli occhi vanno tenuti serrati per venti minuti, nel tanfo di pelle arrostita di quello che è passato prima. Una delle prime volte, le ventole non funzionavano bene, mi bruciava il seno, a fatica avevo tentato di aprire lo sportellone senza riuscirci. Temetti che le lampade mi avrebbero potuto incenerire come nei film raccapriccianti che guardo la sera, quando non riesco a dormire; quelli in cui qualcuno viene incenerito e muore lì, carbonizzato. Di quella sensazione, oggi, ne sono ingorda. La vita è assenza di morte. Basta che il cuore batta. Questa roba qui, mi faccio bastare. Davvero, basta che il cuore batta?
Apro l’armadio, è sabato diciotto settembre. Luca se n’è appena andato, io mi sono lavata alla veloce. Non trovo i vestiti adatti. Frugo, cerco nel guardaroba; le grucce tintinnano col suono delle campane a vento sull’asta di metallo. Lo maledico, l’armadio vuoto. Vuoto. Vuoto pure l’addome che mi ritrovo ad accarezzare supina, ché si sente che non ha più nulla da contenere. Nemmeno un brandello di utero: hanno asportato tutto, svuotata e ricucita, per quelle mani non ero che un fagiano da imbalsamare. Ricordo la sala operatoria, la mascherina per sedarmi, una museruola sulla faccia, Faremo in fretta, signorina. Faremo in fretta, lo dice anche chi ti sta per violentare. Mezza piena e mezza vuota. Mezza viva e mezza morta.
Sono arrivata con poco anticipo al civico 66. Mostro il mio biglietto ed entro. I vestiti giusti li abbiamo cuciti addosso, dice al microfono una voce di donna. La sento nella sala qui adiacente, salutare gli ospiti e augurare una buona serata a tutti. Mi levo i vestiti in una stanza che profuma di gelsomino e patchouli. Piego le mie mutande formando un triangolo di stoffa, noto che la canottiera ha le bretelle slabbrate, tolgo anche quella e ficco tutto nello zainetto, poi cerco l’asciugamano. L’asciugamano non serve, non mi fanno accedere nemmeno se lo tengo sotto braccio, non si può portare la copertina della sera, per chi ha paura di dormire al buio. Mi rassicurano, mi dicono di fare un bel respiro e di entrare quando me la sento. Mi morsico le guance, il sapore di sangue mi salva dall’indugio. Uno, due tre: entro.
La sala è ampia, avvolta nella penombra, tavolate imperiali sono apparecchiate con drappi di velluto color champagne che toccano in terra. Sopra, una fila di candelieri dorati alternati a vasi di fiori secchi e pampas piumati. Non ci sono camerieri, solo carrelli con posate, piatti di ceramica impilati e calici per il vino. Lunghi tendaggi porpora scendono a cascata dal soffitto a volta. Come in un dipinto rinascimentale. I corpi nudi si muovono disinvolti, in un’orgia donne si soffiano parole sgranocchiando carote e gambi di sedano, studiandosi a vicenda i tatuaggi, i nei, le macchie della pelle e si pettinano, si annusano, intrecciano i capelli. Qualcuna li lascia sciolti a coprire i seni. Le mani unite a conca nell’involontario gesto di riparare alla vista il basso ventre. Altre ostentano le forme da Venere preistorica, si accarezzano a vicenda, con intimità. I corpi sono così imperfetti: involtini di prosciutto in gelatina. Materia decomponibile, spappolabile, tartare di carne al coltello. Un uomo fotografa un grumo di persone ammassate che forma una piramide umana, sullo sfondo un muro scrostato, al vertice una donna con le braccia alzate e gli occhi chiusi. In una stanza alcuni fanno esercizi di respirazione con le mani posate sul petto. Le carnagioni si mischiano: sottotoni olivastri, rosei, lunari, scuri. Nel carnaio una ragazza taciturna, solitaria, ha la pelle sottile sulle gote, sembra carpaccio appena affettato. Le braccia incrociate e le gambe serrate la avvolgono dei giri con cui lo spago lega, stringe l’arrosto. È giovane, ha l’età dell’agnello pasquale in umido, troppo giovane, sono troppo giovane, in quello specchio. Ohm Ohm… recita un coro di voci nascosto nel fondo di questo luogo spoglio, senza finestre. Da dove arriva la luce? Un’orda di uomini legge libri di filosofia, si ascoltano, annuiscono, si tengono per mano, l’unica donna tra loro dice di sapere il greco antico, come ti stanno guardando, donna, Finché abbiamo un corpo, siamo morti, diceva Platone, dice lei.
Vanessa. Il suo corpo. Vivo, morto. Semivivo. Semidivino, penso.
Sorrido per lei. Ho freddo, mi avvicino alle pareti in cerca di una superficie che mi regga, mi copra, mi nasconda. Brancolo nel labirinto di corridoi stretti e scuri: la poca luce proviene dagli angoli in cui alcune candele esauste combattono il buio in silenzio. I piedi scricchiolano sul pavimento di legno cosparso di granelli di sale, sembrerebbe. Sale o sabbia. C’è un odore soffocante di incenso, credo, no, sono sicura, che qualcosa stia bruciando. Un gemito, un gemito diverso da tutti gli altri, oltre quella porta mi fa indietreggiare. Riconosco quella lagna. Una ragazza mi si avvicina, dice di chiamarsi Zara. Gli orecchini pendenti oscillano stirandole i lobi, in mano ha un punteruolo. Lo usa per graffiarmi le clavicole sporgenti, è delicata, ma insiste sulle ossa fino a pungermi nella fossetta del collo. Con l’altra mano mi accarezza, parte dal viso e arriva a toccare quel punto. Si accorge del cordoncino in rilievo, della cicatrice sul ventre. Ci passa sopra con le unghie, la sfrega, insiste, sembra voglia cancellarla. Poi si inchina, ci appoggia sopra l’estremità del punteruolo: il cuore è un bongo suonato all’impazzata, la sua eco lontana mi pulsa nelle tempie. Mi ritraggo. Lei si avvicina a un carrello e versa un liquido chiaro e viscoso dentro un calice. Lo riempie fino all’orlo. Prendi! È latte materno, dice con espressione sardonica, poi aggiunge: di là stiamo modellando la creta, vuoi unirti?
Sara Cordero (Asti, 1995). Insegna alla scuola primaria. Ha pubblicato articoli sulla rivista albese DaLeggere. È autrice del romanzo Il tempo condizionale (Effetto).
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