Sesta puntata della nostra inchiesta sul cinema di genere e horror italiano contemporaneo
Riavvicinare il pubblico al cinema di genere. Formare una classe di addetti ai lavori che conoscano le specificità dei suoi linguaggi. È da qui che riprendiamo il discorso, e lo facciamo con le parole di Silvia Moras[1], docente e storica del cinema, con cui ci siamo lasciati la settimana scorsa a proposito del ruolo delle piattaforme. Secondo Moras, infatti, le piattaforme hanno agito proprio in questa direzione, per esempio rispolverando i classici del passato e concorrendo a plasmare una cultura del genere, anche presso le giovani generazioni di utenti. Da Netflix e Prime Video, fino alle gratuite RaiPlay e Pluto TV, sono numerosi i cataloghi che ospitano molteplici e variegati di film di genere, che siano action, thriller, horror e simili, compresi anche tanti titoli nazionali, tra grandi classici e ultime uscite.
In realtà, il vantaggio delle piattaforme va persino ben oltre, perché una normativa europea impone ai colossi dello streaming di contribuire allo sviluppo audiovisivo dei paesi nei quali forniscono i loro servizi. Il che significa reinvestire parte degli utili nella produzione locale. Senza questa direttiva, forse film come A Classic Horror Story e Il legame non avrebbero visto la luce, perlomeno così come li conosciamo adesso. «Le piattaforme hanno permesso ad autori come me, o a tanti giovani che stanno lavorando alle loro opere prime, di avere una possibilità; senza di loro, probabilmente saremmo rimasti a una fase di stallo» confessa Domenico de Feudis[2]. «Io stesso mi sono trovato in un momento particolare, perché Netflix era alla ricerca anche di prodotti glocal». Si può ben dire, quindi, che le piattaforme non soltanto sostengono la cultura dei generi, ma incentivano anche l’industria nazionale. Ciononostante, il discorso è ben più complicato di quanto appaia.
«Ultimamente l’Italia sta producendo molto cinema di genere, il che è un bene, perché gente come me non lavorerebbe mai diversamente» sostiene Mauro Aragoni[3], «quello che mi spaventa sono le piattaforme e la facilità estrema con cui finanziano progetti fin quasi a finirli, per poi annullarli all’ultimo. Succede più spesso di quanto si immagini». Insomma, anche nelle realtà produttive più forti c’è il classico rovescio della medaglia. Si è già detto, per esempio, dei limiti artistici e creativi che i grandi fornitori di video on demand possono porre all’attività di registi e autori. «Le piattaforme si portano dietro anche un carico di standardizzazione, per cui non sono sempre il più grande impulso per l’innovazione di linguaggio», sostiene Alberto Mascia[4], che tuttavia ammette egli stesso anche il contraltare positivo. «È pur vero che grazie a loro ci si è aperti un po’ di più al cinema di genere in Italia. Per quanto riguarda Ipersonnia, quando è arrivato in piattaforma [su Prime Video, ndr] alla fine di gennaio, per qualche settimana è stato nella top ten, arrivando anche tra i primi posti».
Ovviamente, non possiamo ignorare che una distribuzione su piattaforma, che sia complementare o alternativa alla sala, non garantisce inevitabilmente la visibilità meritata, e per ogni titolo che emerge ce ne sono molti altri che sprofondano. Gli spettatori, oggi, sono bombardati da un’offerta così nutrita e in continuo rinnovamento che è impossibile stare al passo e riuscire a scovare anche i titoli meno gettonati, come avverte Vincenzo Petrarolo[5]. Difatti, le nuove uscite non sempre vengono segnalate in vetrina, per cui è probabile che ad avere la meglio siano solo i titoli consigliati dalle piattaforme stesse. Comunque, che queste abbiano acceso un faro sul cinema di genere italiano, compreso quello più recente, è ormai fuori di dubbio. Anche Petrarolo ritiene che questo cinema confluisca sempre più sulle piattaforme, o comunque riesca a trovare in esse un canale alternativo di diffusione – e il pubblico, infatti, sembra essersene accorto.
L’abbandono progressivo delle sale è un fenomeno che non passa inosservato, nonostante in molti ritengano che il cinema resti il luogo di destinazione più adatto ai film di genere, non soltanto per godere meglio degli effetti digitali sempre più sofisticati. L’esperienza collettiva è in grado di esaltare un certo tipo di cinema, di esorcizzare la paura o di amplificarla, di riunire una platea di sconosciuti in un tifo esteso, che sia sonoro o silenzioso non importa. «È compito fondamentale del nostro sistema produttivo non abbandonare le sale» sostiene la sceneggiatrice Silvia Ebreul[6]. «Per il prodotto di genere, sostituire la fruizione comune è un errore imperdonabile: il respiro del vicino di poltrona, il sobbalzo dell’amico, lo spavento condiviso con gli sconosciuti nel buio della sala, sono fondamentali per rendere “vera” la finzione».
Insomma, il ruolo delle piattaforme è talmente composito che da un attimo all’altro passa da complice a concorrente, a seconda delle prospettive. Immaginarle come sostituti della sala è faticoso, oltre che deprimente, eppure la loro attrattiva è innegabile. Se il pubblico non ha smesso di nutrire interesse verso il fantasy, l’horror e la fantascienza, è pur vero che riesce a soddisfarlo in gran parte attraverso lo schermo di casa propria. «Le piattaforme hanno puntato su un cinema di genere più pop, nel senso di popolare, e probabilmente in questo modo sono riuscite ad accogliere quella parte di pubblico che non trovava spazi nelle sale» aggiunge Silvia Moras. «Non è escluso che siano state addirittura in grado di creare e coltivare un nuovo pubblico di giovani e giovanissimi per il cinema e la tv di genere».
Questo pubblico dev’essere lo stesso che si riversa poi nelle pagine e nei gruppi in cui, sui social network, gli utenti si scambiano pareri e consigli sulla base dei rispettivi gusti. Non è difficile notare, in queste floridissime community, come i prodotti di genere abbiano un posto privilegiato nelle discussioni (sebbene i titoli italiani vi compaiano assai meno rispetto a quelli stranieri). Ma se parliamo di punti di aggregazione, è inevitabile citare il ruolo che tuttora svolgono – forse più della sala e delle piattaforme – i festival cinematografici di genere. «C’è tutta una community di fan e collezionisti che si ritrovano ai festival, che sono così diventati dei momenti di ritrovo importanti» continua ancora Moras. «Credo che sia un fenomeno recentissimo, forse sviluppatosi negli ultimi due anni, quello della nascita di tanti piccoli festival animati proprio da coloro che fanno cinema di genere, che raccolgono la vecchia guardia e riescono a creare anche nuovo pubblico».
Dal livornese Fipili Horror Festival al Cine Underground di Busto Arsizio, dal ToHorror Fantastic Film Fest al Nightmare Film Festival di Ravenna, dall’Apulia Horror International Film Festival al Trieste Science+Fiction Festival e al Fantafestival romano, l’Italia è attraversata in lungo e in largo da manifestazioni festivaliere che raccolgono il meglio della produzione di genere nazionale e internazionale. A questi eventi, che in alcuni casi hanno raggiunto persino una longevità invidiabile, si deve il merito di aver portato in Italia opere e autori che hanno lasciato il segno nella storia del cinema – e non soltanto di genere – contribuendo di fatto allo sviluppo della cultura cinematografica anche nel nostro paese. Questi festival, però, possono costituire delle vetrine promozionali così come possono rischiare di rivolgersi sempre e solo allo stesso pubblico. E cioè che continuino a parlare soltanto agli appassionati, senza riuscire a oltrepassare i confini del genere. La nostra speranza, naturalmente, è che nessuno di loro resti confinato nel suo contesto d’origine, e che accanto a quelli più blasonati si possa parlare sempre di più anche di queste altre manifestazioni.
Andrea Vitale
[1] Silvia Moras, docente e storica del cinema, ha lavorato nell’ambito di numerosi festival ed eventi cinematografici, è collezionista di locandine e materiali vari legati al cinema di genere italiano ed è consulente per il Museo Permanente del PAFF! di Pordenone.
[2] Domenico de Feudis è regista e autore de Il legame, film horror del 2020 scritto insieme a Davide Orsini e Daniele Cosci e distribuito da Netflix, dove è tuttora disponibile.
[3] Mauro Aragoni è regista e autore del film Quella sporca sacca nera, scritto insieme a Roberto Comida. Da quest’ultimo è stata tratta la serie That Dirty Black Bag, di cui ha firmato regia e sceneggiatura e che è attualmente disponibile su Paramount+. Gli altri autori della serie sono Marcello Izzo, Silvia Ebreul e Fabio Paladini.
[4] Alberto Mascia è regista di Ipersonnia, di cui è anche sceneggiatore insieme a Enrico Saccà. Il film è attualmente disponibile su Prime Video.
[5] Vincenzo Petrarolo è regista e autore di Lilith’s Hell e I Follow You, film horror che hanno ottenuto notevoli riconoscimenti ai festival e distribuzione internazionale.
[6] Silvia Ebreul è una sceneggiatrice, che ha contribuito a scrivere le serie tv That Dirty Black Bag e Il cacciatore. Quest’ultima è attualmente disponibile su RaiPlay, mentre la prima è visibile su Paramount+.
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