Una storia di Videomusic, raccontata da dietro le quinte
Ho lavorato per Videomusic per circa quattro anni, prima da semplice redattore e poi da autore di programmi: quella, per me, è stata un’esperienza molto importante, formativa e intensa.
Il periodo più bello e pionieristico è stato il lavoro per Segnali di Fumo, un contenitore quotidiano di due ore, tutto in diretta, in onda dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 16. Credo sia stata una pagina di televisione incredibile, fatta di molta passione, impegno e qualità, ma che purtroppo non viene quasi mai ricordata e celebrata nella giusta misura. Solo di recente Rockit, una webzine di musica oggi molto seguita e popolare, ha pubblicato un articolo retrospettivo che ha ridato un po’ di visibilità a quel pezzo di storia televisiva italiana.
A proposito di Segnali di Fumo, di cui sono stato redattore specializzato nella parte musicale, faccio qualche numero per dare l’idea dell’impegno giornalistico e televisivo: ogni giorno un gruppo veniva intervistato e suonava dal vivo quattro brani, poi almeno due interviste in studio ad altrettanti ospiti artisti o personaggi dello spettacolo e della cultura (attori, scrittori, performer), almeno tre/quattro servizi esterni su eventi o concerti che si svolgevano a Milano (e allora quasi TUTTO succedeva a Milano), dai live di altri musicisti agli spettacoli teatrali, alle mostre.
Numeri significativi, e a produrli era una redazione striminzita di due (due!) redattori, due (due!) autori, e un paio di assistenti di produzione, (se penso alle redazioni monstre di certi programmi di oggi…). Sì, perché la trasmissione andava anche tutta “scritta”, dai lanci per i conduttori alle scalette, poi c’era il montaggio dei servizi che facevamo internamente con un montatore dedicato (il mitico Donato, uomo di grande saggezza e passione cinematografica sconfinata, che ora è regista a Mediaset). E il montaggio allora non si faceva in digitale come oggi, ma si viaggiava su cassetta a nastro “betamax”, piuttosto voluminosi e pesanti, con un banco regia grande quanto una stanza, in un momento di transizione analogico/digitale ancora dopotutto avventuroso.
Fare una diretta è un’esperienza bellissima: adrenalina, esaltazione, tensione continua, un gioco di incastri tra ospiti che arrivano (o che non arrivano), servizi da mandare in onda, artisti che devono partire con i brani live. La bellezza è che alle quattro tutto era finito e lanciato nell’etere, comunque fosse andata, con i suoi errori e papere, ma anche con momenti di grande televisione. Poi si ricominciava dalle 16.01 a lavorare alla puntata successiva, si preparavano scaletta, testi, materiali per i conduttori, in un ciclo continuo.
La giornata era strutturata con disciplina militare, i contrattempi una costante, ma miracolosamente tutto si aggiustava. Il mattino in studio arrivavano gli artisti o le band che avrebbero suonato nel programma per il soundcheck. Una tendenza abbastanza consolidata era questa: band inglesi piuttosto sulle loro e antipatiche, band americane più alla mano e cordiali. Abbiamo visto passare quasi tutto il brit pop di quei tempi (a parte i più grandi, Oasis e Blur), e molti grandi nomi dell’alt rock americano. Ricordo Suzanne Vega e la sua band (tutti molto cool in total black), veri intellettuali newyorkesi, che appena finite le prove lasciano gli studi e corrono a vedere il cenacolo!
Prima di andare in onda abbiamo assistito anche a metamorfosi assolute, ragazze americane acqua e sapone, arrivate in jeans e maglietta che uscivano dal mani dello staff “trucco e parrucco” trasfigurate in creature misteriose e bellissime.
La sera si usciva con la troupe a intervistare nei locali della città gli artisti in tour, approfittando per filmare anche qualche brano del concerto che sarebbe servito a montare il “servizio” (unico vantaggio, liberati gli operatori, poi si restava a vedere il live). Anche qui le disavventure non mancano: spostarsi fino a Cremona per intervistare Guccini, (lo ricordo con indosso una improbabile camicia rosa di seta…) ma farlo pochi minuti prima del concerto, ricevendo ovviamente solo risposte monosillabiche, mentre dai camerini si sentiva la platea rumoreggiare nell’attesa. Oppure andare dai Massive Attack al Rolling Stone di Milano (un locale per concerti che ora non esiste più) e rendersi conto solo sul posto che l’accento di Bristol, città da cui viene la band, è assolutamente incomprensibile. Intervistarli quindi impeccabilmente per mezz’ora senza capire una parola e scoprire solo in montaggio che alla fine mi avevano fatto i complimenti per le domande… sarò sembrato un inusuale esempio di italiano scontroso!
Ho visto nascere almeno un paio di carriere. Come co-autore, scelsi dopo vari provini Victoria Cabello per il suo primo vero programma, un pomeridiano su Videomusic. Fui autore di una striscia quotidiana sulla musica rap, allora alla sua seconda ondata nelle classifiche (Articolo 31, Sottotono). Il conduttore scelto era un giovane musicista pugliese; dopo quella esperienza per lui deludente, scappò da Milano, cambio nome e tentò di ricostruirsi una carriera nell’hip-hop. Da allora si fece chiamare Caparezza.
Nelle mie stagioni a Segnali di Fumo i conduttori protagonisti indiscussi sono stati Claudio Cingoli, detto “il caimano” per il taglio punk a cresta, e Paola Maugeri, che ora è una storica giornalista e scrittrice, allora una conduttrice in ascesa e cantante di una band punk/alt rock chiamata Puertorico Rules. Era corteggiatissima da artisti nazionali e internazionali. Un famoso chitarrista metal di cui non farò il nome, dopo l’ospitata in trasmissione, le inviò il calendario del suo tour europeo con i giorni “off”: chi vuole intendere…
Segnali di Fumo era l’appuntamento fisso e imprescindibile per ogni ragazzo tornato da scuola in quei pomeriggi in cui non c’erano telefonini, Facebook, Instagram e nulla di nulla con cui si potesse interagire, a parte il telefono di casa per chiamare gli amici. Eravamo popolarissimi e attesissimi, non ho conosciuto persona che fosse teenager in quegli anni che non mi abbia detto “ah sì, Segnali di Fumo!”, con una sfumatura di tenera nostalgia, quando ho raccontato del mio passato televisivo.
I conduttori ricevevano centinaia di lettere al mese, e noi ci inventammo una rubrica per rispondere alle più divertenti e originali. Insomma, prima di TRL su MTV, dei cosiddetti VJs, una galleria di personaggi era diventata molto popolare e seguita dai ragazzi di allora anche grazie a noi.
Eravamo una tv musicale, specializzata nella messa in onda di videoclip h24/7su7, e questo, appunto, qualche mese prima della nascita di MTV. Un primato italiano che nessuno conosce. Dalla sede centrale della rete che era, incredibile a dirsi, sulle remote montagne dell’Appennino toscano (ma questa è una storia da raccontare altrove), si stabiliva il “videoclip della settimana” che aveva diritto a un passaggio all’ora per i successivi sette giorni. Beh, con quella esposizione si poteva allora davvero fare le fortune di artisti e band, tanto forte era l’impatto su visibilità e vendite. E la redazione della rete era piuttosto punk nelle scelte, il video era deciso fuori dai giochi, con puri criteri di qualità e originalità: spesso erano le band indipendenti e di nicchia a ottenere quel passaggio così pesante. Un esempio? I Tiromancino, allora sconosciuti (quando vennero ospiti in trasmissione da Roma, dovettero dormire a casa della aiutoregista, non avevano un soldo). Ci fu il panico assoluto nelle major discografiche, che allora erano strutture potentissime.
Un altro capitolo era lo Studio. Non solo tutto era dal vivo, ma avevamo ogni giorno cerca venti spettatori. Non comparse pagate, ma pubblico rigorosamente autentico, che telefonava, si prenotava e veniva a passare due ore negli studi della trasmissione, toccando con mano come si faceva la tv e potendo ascoltare live a qualche metro da loro artisti a volte irraggiungibili.
L’elenco degli aneddoti è lunghissimo: una puntata di grande successo, con i Litfiba dal vivo, e i ragazzi sistemati in ogni angolo possibile dello studio tanto grande fu la richiesta. Thom Yorke dei Radiohead che arriva al nostro indirizzo venti secondi prima dell’orario concordato, esce dal taxi (pelliccia di peluche rosa, capelli biondo platino, occhiali arancioni, pantaloni verdi), viene letteralmente sollevato di peso dai suoi discografici e buttato dentro allo studio mentre il countdown è a meno tre secondi.
E poi decine di grandi band indipendenti nazionali, un lavoro di ricerca certosino che ha offerto uno spaccato ampio e molto autentico della musica italiana indipendente di allora, dai gruppi più popolari a realtà davvero marginali. Abbiamo ascoltato rap abruzzese (Lou X, ora una leggenda della old school italiana), pop sardo (i Tazenda,), noise strumentale siciliano (gli Uzeda, una band che allora faceva più concerti in Europa che in Italia, e nei ’90 era un traguardo non banale). Ricordo il live indiavolato e potentissimo dei Ritmo Tribale (una band milanese molto popolare negli anni ’90, che ha fatto la storia dell’alt rock italiano), con Edda, il cantante che allora si esibiva rigorosamente a torso nudo, con un kilt scozzese rosso e anfibi. Era bellissimo. E ancora i primi successi e il live in trasmissione degli Afterhours di Manuel Agnelli, già allora magnetico, convincente, polemico, determinato. Eppure, dietro le quinte, uno degli esseri più gentili e timidi mai incontrati nella mia carriera.
Ospitammo anche molto mainstream: come Marco Masini allora all’apice della carriera, che arriva con due tour bus enormi ai nostri studi allora nel cuore dei Navigli al pianoterra di una palazzo, in un cortile strettissimo e gli autoarticolati che si incastrano senza riuscire a muoversi per lo stupore degli inquilini. Il chitarrista di Marco era abituato agli stadi e non concepiva di andare in scena con meno di sette chitarre che entravano a malapena nel piccolo palco dello studio. Non mancano neppure momenti da commedia all’italiana: il chitarrista di una band grunge toscana che arriva con una ragazza al seguito. Si baciano nel backstage, sono molto affettuosi. In trasmissione Paola, credendo di essere gentile, la nomina durante l’intervista, «sappiamo che sei qui con la tua ragazza!». Imbarazzo totale, il musicista che si affretta a smentire. La fidanzata “ufficiale” era in toscana e probabilmente stava ascoltando la diretta…
Ma lo studio regala anche delle magie, artisti che entrano e spostano l’energia riempiono lo spazio di una speciale aura e tutti capiamo all’unisono che lì stiamo osservando una futura star. Gianluca Grignani, timido, scontroso, si presenta con il suo produttore, il leggendario Massimo Luca, chitarrista di Lucio Battisti nei Settanta. Si siede per le prove del mattino, inizia, sbaglia, si incazza, Massimo lo tranquillizza, riparte e canta La mia storia tra le dita. Abbiamo tutti la pelle d’oca. Ah, lui era anche bellissimo, le ragazze della produzione erano incantate. E poi Carmen Consoli, così minuta e nervosa, eppure quando attacca con la chitarra elettrica stupisce tutti con la sua forza ed energia, non priva però di quella punta di malinconia siciliana, che non l’ha mai abbandonata.
Ma chiudo con un ultimo momento che mi è particolarmente caro. È mattino, per le prove sul palco dello studio sale un ragazzo di colore altissimo, bellissimo. Si siede, appoggia la chitarra sulle ginocchia, le corde verso l’alto, e inizia a suonarla in quel modo inusuale. Canta un blues, solo strumento e voce. È un momento di magia così forte, così potente che il silenzio è totale. Anche i fonici, sempre cinici e sarcastici, rotti a qualunque esperienza, casino, contrattempo e capriccio, impermeabili a qualunque emozione, smettono di armeggiare con cavi e spie. Si fermano, si avvicinano, ascoltano in religioso silenzio. Tutti abbiamo appena scoperto Ben Harper.
A conti fatti credo che la trasmissione, nelle sue poche stagioni di vita abbia mandato in onda circa quattrocento gruppi dal vivo, più di mille interviste in studio e almeno trecento servizi su artisti, attori, spettacoli, mostre d’arte ed eventi. E con una redazione tutto sommato piccola, ma come già detto, agguerrita, appassionata, competente. Una grande mole di lavoro e di prodotto televisivo vissuto e creato con leggerezza, divertimento, gioia e una punta di giovanile sconsideratezza. E mi piace ricordare che davvero nessuno di noi si arricchì (perlomeno in denaro) per tutto questo.
Ecco. Questo è un breve spaccato di quella avventura televisiva, ma vorrei dire anche umana e culturale, che è stata Videomusic in Italia negli anni Novanta e in cui anche io ho fatto la mia (piccola) parte. E di tutto questo vado fiero.
Luca Lezziero