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Un’altra rappresentazione è possibile

Una sera di quest’ultimo agosto, che sembra essere passato appena l’altro ieri, mi trovavo sul divano, pronto finalmente a prendere il comando della tv. Scorrendo tra le locandine del catalogo Prime Video, m’accorgo che in cima alla top ten (lo sapete, no, che le piattaforme ormai pubblicano le classifiche dei loro titoli più visti?) c’è un film di cui non avevo minimamente sentito parlare. S’intitola Bianco, rosso & sangue blu. Una spulciatina su internet per capirci meglio: è una commedia romantica queer tratta da un libro di successo negli Stati Uniti, il quale mi giungeva ugualmente nuovo alle orecchie. Non che io conosca tutto ciò che viene pubblicato ma, per uno che cerca di tenersi informato, quando c’è qualcosa che ti sfugge un po’ di curiosità ti viene.

Comunque, non è stato difficile capire di che cosa si trattasse: bianco, rosso e blu sono i colori delle bandiere americana e britannica, e il sangue blu è notoriamente quello delle teste coronate, e quanto al resto il trailer ha chiarito bene la situazione. Protagonisti sono due giovani rampolli, uno di una casa reale e l’altro di una famiglia presidenziale, entrambi bellocci, tutt’e due con la fama di sciupafemmine ma a cui piace scaldare il letto insieme. Lo stesso letto, se ci fosse bisogno di essere più espliciti. Del resto, se conosci le rom-com (lo sapete, no, che adesso è così che si chiamano le commedie romantiche?), sei sicuramente a conoscenza anche dell’architettura tipica: due persone si incontrano, all’inizio non si prendono per niente, anzi, magari appartengono anche a due categorie agli antipodi, ma una situazione indipendente dalla loro volontà li costringe a stare una attaccata all’altra. L’amore verrà di conseguenza.

Chi sono Henry e Alex

Nel nostro caso, i due si chiamano Alex, figlio super-gossippato della presidentessa degli Stati Uniti, e Henry, fratello dell’erede al trono della casa reale più famosa del globo. Henry e Alex si trattano con spocchia e sufficienza, ma un incidente diplomatico – di natura comica, niente di grave – li costringe a doversi riappacificare alla luce dei riflettori. E poiché Inghilterra e Stati Uniti hanno appena stipulato un accordo commerciale (di cui non ci viene detto granché, e comunque neanche ce ne frega), farsi vedere insieme più amiconi che mai sembra essere a entrambe le famiglie un’ottima campagna di marketing. Come sopra, l’amore verrà di conseguenza.

Inutile dire che nessuno dei due voglia uscire allo scoperto, data la posizione pubblica e la fama di casanova che li accompagna. Potrebbe essere l’inizio di un dramma in piena regola, con le famiglie che si oppongono, gli amici che si imbarazzano, l’incubo dello stigma sociale, e invece non è così. O meglio, è anche così, ma non solo: perché tutto questo viene solo abbozzato, passato al setaccio di una narrazione che risponde agli obblighi della commedia. E qui, cari miei, sta tutta la differenza.

La commedia romantica queer è possibile?

Per giorni e giorni ho continuato a pensare a questo film senza riuscire a spiegarmi il perché. Vabbè, che i due protagonisti siano due gran pezzi di ragazzi non dobbiamo dircelo noi, ma la questione è assai meno frivola. Il fatto è che, ragionandoci su, mi ha lasciato un’insolita sensazione di benessere. Come una commedia dovrebbe fare, direte voi, ma che non è affatto scontato che accada quando di mezzo c’è una storia d’amore tra omosessuali. Così come non è affatto scontato che due uomini – o due donne, o due transgender, insomma ci siamo capiti – debbano per forza trovare degli ostacoli alla costruzione di una love story. Quelli, semmai, fanno parte del corredo narrativo delle rom-com, come per esempio due individui (non importa l’identità di genere), che per storia personale e posizione sociale non sono propriamente destinati a stare insieme. Tipo: Romeo e Giulietta, avete presente? Oppure, avvicinandoci ai giorni nostri, vi ricordate di Vivian ed Edward in Pretty Woman?
Gli impedimenti esterni al coronamento del sogno d’amore sono comuni al genere (narrativo, s’intende). Bianco, rosso & sangue blu ci mette i suoi, e comunque sono piuttosto blandi. La famiglia di Alex, con la mamma Uma Thurman presidentessa in primis, accoglie la notizia con serenità. Il nonno di Henry, il re interpretato da Stephen Fry, non compare che sul finale e senza alcuna incisività, tant’è che di lì a due minuti la coppia esce allo scoperto davanti a tutta Buckingham Palace.

Ritrovarsi sullo schermo, e sorridere

Credo che il punto sia tutto qui: che gli impedimenti alla fine si trasformassero in benedizioni. Che gli scandali e i segreti diventassero chiacchiericcio da bar. Che i bronci si capovolgessero in sorrisi. Insomma, che Henry e Alex potessero stare insieme senza che arrivassero mogli nascoste, ipotesi di licenziamento, rischi di depressione, malattie sessuali (lo sapete, no, tutto il bagaglio tristone a cui la narrativa LGBT+ ci ha abituato negli anni?) a minacciarli all’orizzonte. Perché la vita di un omosessuale (e di tutta la comunità di cui sopra) può essere molto difficile – come quella di chiunque altro, ma con complicazioni un tantino diverse – ma può anche essere fatta di famiglie che si amano, amici che ti comprendono e finali più che lieti, lietissimi.

Mi sono ricordato, allora, di un articolo che avevo letto qualche mese fa, a ridosso della vittoria agli Oscar di Everything Everywhere All at Once, di una giornalista di origini asiatiche che scriveva dell’importanza di essere rappresentati. Cioè, di non essere raccontati sempre e solo come i proprietari di una lavanderia a cui i protagonisti bianchi del film lasciano i panni sporchi in consegna, ma come i protagonisti del film stesso in cui i clienti bianchi semmai appaiono per lo spazio di pochi minuti. È esattamente quello che ho provato io, quando ho realizzato perché Bianco rosso & sangue blu mi avesse lasciato così di buon umore. Non mi è stato subito chiaro: d’altronde, il film non è Pretty Woman, né tantomeno qualunque altra commedia brillante vi possa venire in mente.

Ciononostante, era quello di cui avevamo bisogno. Beh, io, perlomeno: cioè, di assistere a una storia in cui nessun membro della coppia muore di AIDS, rivela di avere una doppia vita con moglie e figli, non può entrare in ospedale a visitare il partner perché la legge non glielo consente. È una questione di rappresentazione: due omosessuali che si amano e nulla più. Quand’ero adolescente, l’unico ragazzo gay in televisione era Jack di Dawson’s Creek, e anche lui doveva passare attraverso una difficile accettazione di sé, fatta di lacrime, insulti e pestaggi. Poi sono arrivate Willow e Tara, e sappiamo tutti com’è andata a finire. Queer as Folk non era facilmente reperibile, e lo stesso valeva per The L World. Per chi ha trascorso la giovinezza in quegli anni lì, nella televisione mainstream non c’era molto altro – insomma, prima di Glee, True Blood e Le regole del delitto perfetto, dove comunque non era tutto rose e fiori. Intanto, al cinema arrivavano I segreti di Brockeback Mountain, Moonlight, The Danish Girl, Ritratto della giovane in fiamme, Chiamami col tuo nome, Dallas Buyers Club, la filmografia di Ferzan Özpetek e quella di Xavier Dolan: tutti film con cui mi sono emozionato e ho persino pianto.

Perché nella vita c’è anche dell’altro, e lo abbiamo imparato benissimo sulla nostra pelle. E che le opere che denunciano l’altra faccia della medaglia, quella brutta e sporca, siano sacrosante nessuno lo mette in dubbio. Però abbiamo bisogno di sentirci rappresentati anche in altri modi. Di immaginare un mondo in cui due omosessuali possano essere fidanzati senza che eventuali drammi incombano sulle loro vite anche dopo la parola fine. Di una nuova tradizione narrativa che ci invogli a sperare, a sorridere, a desiderare d’innamorarci e che ci faccia credere che ogni tanto, in fondo, la felicità è un’opzione possibile.

Roberto La Spina

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Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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