Avremmo forse potuto trovare un titolo più breve per questo articolo? Certamente. Ma quale modo migliore di un surplus di parole per introdurre un argomento sempre più dibattuto, e senz’altro sentito, quale la durata delle opere cinematografiche? Se siete qui, è assai probabile che anche a voi sia capitato di lamentarvi della durata – a vostro avviso eccessiva – di un film, ritenendo che la storia si sarebbe potuta condensare in qualche minuto in meno. E magari siete tra quelli che preferiscono evitare le visioni che richiedano più di due ore perché non siete sicuri di riuscire ad arrivare svegli fino alla fine. A cui non importa se questo o quel titolo abbia vinto a Cannes, a Venezia o addirittura l’Oscar, perché per voi un film non dovrebbe durare più di novanta minuti, e vi chiedete perché mai invece i più attesi e annunciati, come i recenti Oppenheimer di Christopher Nolan e Killers of the Flowers Moon di Martin Scorsese, non rispettino invece questa regola d’oro.
Di certo qui non si vuole risalire al momento esatto in cui la nostra predilezione si è accordata alla brevità – questo sì che sarebbe un esercizio troppo lungo – però possiamo affermare con ogni possibile sicurezza che l’avvento dei social media ha dato una svolta decisiva in questa direzione. Post sempre più brevi, tweet con un numero limitato di caratteri, fino al sopravvento della comunicazione immediata, anzi immediatissima, con l’uso di immagini da consumare in pochi secondi. Mentre aumenta il tempo che passiamo ogni giorno sui social, diminuisce la tolleranza che mostriamo verso la durata dei contenuti: quanto ci vuole, per esempio, prima di interrompere un video o un reel e skippare a quello successivo? Forse tre, quattro secondi?
La quotidiana e assidua frequentazione di un audiovisivo usa e getta e a portata di dito ci ha reso indubbiamente più inclini a sopportare meno filmati, opere e testi che si ostinano a non volersi restringere. E intanto, ha cambiato anche il nostro modo di ascoltare musica. Le canzoni sono state ridotte alla stregua di jingle di cui non ci rimane che il ritornello, appiccicato a video virali su Tik Tok ripetuti all’infinito da migliaia di utenti, che contribuiscono così a rilanciare le canzoni stesse in classifica, ben oltre una loro programmata promozione nel mercato discografico: come nel caso di Bloody Mary di Lady Gaga, che undici anni dopo l’uscita dell’album viene ripresa nel 2022 dagli utenti per imitare il ballo della protagonista nella serie tv Mercoledì, e il brano diventa popolare su Spotify con conseguente ingresso nelle chart di mezzo mondo.
Questa contrazione delle canzoni in una manciata di versi e la predominanza di filmati destinati al consumo fulmineo sono i responsabili, quantomeno parziali, della diminuzione della durata delle canzoni destinate al grande pubblico. Chissà se ci avete fatto caso anche voi, ma la musica che circola in radio è diventata sempre più breve. Un po’ com’era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando i singoli di successo ruotavano intorno ai due minuti scarsi (non ci credete? Andate a riascoltare The Twist di Chubby Checker, o I Want to Hold Your Hand dei Beatles, o Hit the Road Jack di Ray Charles). Da allora, i cantanti hanno iniziato progressivamente a sfornare brani via via più lunghi, fino al momento in cui la durata dei singoli si è assestata intorno ai tre e i quattro minuti complessivi, cosa che era ancora valida all’inizio del nuovo millennio; ma è bastata una quindicina d’anni per stravolgere la costruzione di una hit e riportarci indietro (quasi) al secolo scorso. Un po’ di fatti per avvalorare la tesi: entro la fine del 2023 As It Was di Harry Styles e Stay di The Kid Laroi e Justin Bieber potrebbero confermarsi le canzoni di maggior successo dell’ultimo triennio, e nessuna delle due arriva a tre minuti. Insieme a loro, anche Jack Harlow, Rosalía, Lil Nas X, OneRepublic, Nicki Minaj, Imagine Dragons e David Guetta si sono spesso attenuti ultimamente a questa linea produttiva, a volte superando a stento i due minuti totali.
Naturalmente, la musica non è uguale per tutti e per ogni artista citato ce ne sono altrettanti che continuano a cantare e suonare per tutto il tempo che gli pare. Anzi, c’è un fenomeno interessante che va in controtendenza rispetto a quanto detto finora, e cioè che sono in aumento gli album musicali incredibilmente lungi. Infatti, mentre una parte dell’industria discografica tende a omologarsi ai tempi che corrono e a ridurre il numero e la durata delle tracce (l’anno scorso Taylor Swift ha rilasciato l’album più breve della sua carriera dopo quello d’esordio), un’altra parte procede inesorabilmente in direzione opposta. Ed è una parte considerevole, non solo quantitativamente parlando, ma anche perché abbraccia alcuni in pieno uno dei generi che dominano il mercato: l’hip-hop.
Molti dei cantanti più rilevanti sulla scena musicale odierna appartengono a quella categoria che abbraccia il rap e l’R&B e che vanta il primato di rilasciare puntualmente gli album più lunghi ogni anno. Parliamo di artisti dai grandi numeri, soprattutto oltreoceano e nei paesi di matrice anglosassone, come Chris Brown, Lil Uzi Vert, i Migos, Bad Bunny, Travis Scott e, soprattutto, Drake. Le loro più recenti uscite hanno sfondato le barriere dei sessanta minuti per arrivare a una durata complessiva anche di un’ora e mezza (e talvolta di più, come i centoventi minuti di Indigo di Chris Brown del 2019). A tutto ciò, vanno poi aggiunte le edizioni deluxe, le ri-registrazioni, gli EP, e infine la valanga di canzoni con cui veniamo sommersi ogni settimana. E questo, si badi bene, nell’epoca in cui l’ascolto diventa sempre più discontinuo e frammentario, al di là delle specifiche modalità di fruizione in sé: il pubblico ormai si dedica sempre meno ad ascoltare un intero album, preferendo invece confezionarsi le proprie playlist, mentre la conta dei giovanissimi che non hanno mai ascoltato un album in vita loro è in costante aumento.
La ragione per cui gli artisti producano più di quanto potremmo loro richiedere è che, nell’era dello streaming, più materiale equivale a più ascolti, e non c’è bisogno di proseguire per intuire dove ci porti l’equazione. Sarebbe interessante scoprire quanti dei loro fan, compreso lo zoccolo più duro, arrivi poi fino in fondo all’album una volta spinto su play, e quanti poi lo consumino in tempi dilazionati. Comunque, è (almeno in parte) una faccenda di soldi, che poi ci riporta dritto dritto al nostro punto di partenza. Con la questione legata alla durata dei film, i soldi hanno parecchie cose da dirci. Prima di tutto, se fare un film costa, farne uno lungo costa senz’altro di più. Maggiore sarà la durata dell’opera e più tempo richiederà per essere ultimata, e le settimane di riprese equivalgono in paghe per la troupe, senza contare il lavoro dei montatori, i responsabili degli effetti digitali, gli autori delle musiche, che naturalmente dovranno essere pagati per il loro tempo. Questo è uno dei motivi che spingono le produzioni a mantenere il risultato finale entro i novanta o cento minuti. Senza contare il fatto che un investitore lungimirante non può ignorare che la differenza tra un’ora e mezza e tre ore è decisiva, ed è quella che può portare il pubblico a pensare che sia meglio rimanere sul divano, specialmente nell’epoca in cui l’offerta televisiva è ricchissima e i prodotti “brevi” non mancano mica. Ma come mai, allora, registi del calibro di Scorsese e Nolan vogliono ancora firmare opere così lunghe (rispettivamente, 206 e 180 minuti è l’ammontare dei loro ultimi lavori)?
Un’interessante teoria vuole che i registi stiano diventando sempre più potenti, a scapito dei loro diretti interlocutori, i produttori, il che significa che è ormai difficile trovare in giro qualcuno in grado di dire a uno come Spielberg che il suo The Fabelmans duri troppo. Un’altra, invece, ha a che fare ancora una volta con internet. Ora che i vari Netflix, Apple, Amazon e parenti sono entrati nel gioco come investitori, gli autori possono contare anche su una distribuzione aggiuntiva (o addirittura primaria, a seconda dei casi) che cambia notevolmente il nostro approccio al cinema: perché, se un film “troppo lungo” rischia di scoraggiarci ad acquistare il biglietto, la visione in streaming al contrario ci permette di interrompere quando vogliamo, persino di addormentarci per poi riprendere il giorno dopo. Il che significa che esiste un’ulteriore chance per uno Scorsese di portare a termine il suo Killers of the Flower Moon così come lo ha scritto e immaginato, se poi è destinato ad approdare su Netflix.
I soldi, però, hanno ancora un ruolo in questo nostro discorso. Netflix & company potranno pure dare ospitalità a quel cinema d’autore così lungo e così sfortunato al botteghino – ma le due cose non saranno forse interconnesse? – tuttavia esiste un altro cinema, altrettanto impegnativo in termini di durata, che non ha però gli stessi problemi di incassi: ed è quello che chiamiamo cinema di genere. I maggiori incassi della storia del grande schermo appartengono alla fantascienza, al fantasy, al cinema d’azione o d’animazione, insomma a tutte quelle categorie che di norma producono blockbuster di grande impatto destinati a sbancare al box office. Per loro, però, la durata non sembra essere un problema. Il podio, al momento, spetta a tre film che durano rispettivamente 162, 181 e 192 minuti: Avatar, Avengers: Endgame e Avatar – La via dell’acqua. Scendendo ancora più giù, si incontrano i vari Star Wars, Harry Potter, Fast & Furious e compagnia bella. L’unica eccezione è quel Titanic di James Cameron, che ha fatto pensare a molti che fosse possibile continuare a mettere d’accordo pubblico e critica vincendo premi e guadagnando miliardi con drammoni di oltre tre ore. Ma di Titanic, ancora oggi, ce n’è uno solo, e persino James Cameron – che sarebbe poi tornato a fare fantascienza – l’ha capito, che un film che duri così tanto può far contento il pubblico soltanto se è spettacolare.
Anche Christopher Nolan ha imparato la lezione, ed è il motivo per cui il pubblico continua a premiarlo anche dopo Inception, e Interstellar, e Tenet, fino ad arrivare a oggi con Oppenheimer. Lo scorso anno, dei dieci film candidati all’Oscar ce n’erano ben sette che si aggiravano almeno intorno alle due ore e mezza. Di questi, tre sono stati incoronati al botteghino (due dei quali si collocano nell’ambito del cinema di genere), mentre altri tre hanno ripagato appena il budget iniziale. Il settimo, infine, è approdato su Netflix dopo una breve distribuzione nelle sale, e secondo il colosso dello streaming avrebbe accumulato migliaia e migliaia di visualizzazioni. Questo perché in parte risponde al criterio della spettacolarità, e in parte, come dicevamo, gli spettatori si sentono rassicurati a immergersi in un film non propriamente leggero quando sono sul divano di casa.
Viceversa, si potrebbe dire che il pubblico si senta incoraggiato a uscire di casa e pagare il biglietto quando ritenga che valga davvero la pena godersi l’evento altrove, che sia per gli effetti digitali dell’ultimo cinecomic o per la possibilità di ascoltare Taylor Swift ripercorrere tutti gli album della sua carriera nei suoi concerti da tre ore e mezza. Così come quando può decidere senza troppi vincoli se sospendere, posticipare o abbandonare l’esperienza: dopotutto, sappiamo bene che è più facile premere il tasto stop piuttosto che ritirarsi dalla sala cinematografica a proiezione ancora in corso. A farne le spese sono, inevitabilmente, i soliti – e scusate se li tiriamo nuovamente in ballo – Spielberg, Scorsese e chi come loro. Ovviamente, a questo punto non si tratta più di distinguere il cinema d’autore con il cinema d’intrattenimento, dal momento che è già stato dimostrato quanto le due cose possano combaciare (Quantin Tarantino vi dice niente?). Si tratta di tempo – del nostro tempo – e di quanto siamo disposti a concederne. Tutto sta nel non pretendere che Spielberg e Scorsese si adeguino alla velocità dei nostri consumi e inizino a girare di meno. Basta dare un’occhiata alla loro filmografia per scoprire che hanno sempre diretto film lunghissimi. Se smettessero di farlo, probabilmente smetterebbero anche di fare cinema.
Andrea Vitale
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