È notizia recente, quella dell’incoronazione di Taylor Swift come persona dell’anno (ancora per poco) in corso da parte del Time. Sapete, la rivista che si contende il primato di lettura negli USA e che ogni anno ci delizia con la sua lista dei 100 individui più influenti al mondo (con una visione molto americanocentrica, va detto, ma questo è un altro discorso). Notizia ancora più recente: il suo ultimo tour è appena diventato il più redditizio della storia, superando quello di Elton John che fino a ieri deteneva il record, e giacché non è ancora terminato c’è da scommettere che il distanziamento aumenterà ancora.
Fin qui, nulla di nuovo. Nulla, cioè, che non abbiate già letto, sentito e risentito sulle vostre bacheche social o dai microfoni di qualche radio. Probabilmente, anche allora avrete reagito così come puntualmente si reagisce all’annuncio dei cantanti in gara a Sanremo: chiedendosi chi diavolo sia Taylor Swift. Personalmente, la sottoscritta ha appreso entrambi i comunicati da due emittenti radiofoniche di grande portata. Dapprima, dalla voce di una speaker che ci ricordava che TS – così come viene abbreviato il nome della cantante, e come faremo anche noi da qui in avanti – è praticamente una sconosciuta in Italia, e poi da un post su Facebook di un’altra radio sotto al quale decine di utenti commentavano con la propria incredulità. Il nocciolo di questo discorso sta proprio qui: non nei traguardi che TS infrange ripetutamente anno dopo anno, ma nella misura in cui noi italiani contribuiamo al successo della più grande artista musicale al mondo in questo preciso momento.
Dunque, assodato che sì, è vero che il nome di Taylor ai più in Italia non dirà niente (ma ci preoccuperemo di capirlo meglio più avanti), proviamo un attimo a quantificare questo successo. Album multiplatino e number one hits in tutto il globo, dagli States alla Nuova Zelanda, con numeri di vendite che possiamo solo immaginare considerato quanti biglietti sta facendo staccare con The Eras Tour, nonostante i suoi concerti durino tre ore e mezza. Sembra proprio che Taylor sia la cantante dei nonostante. È all’apice del successo nonostante già diciassette anni di carriera alle spalle. I suoi lavori balzano in cima alle classifiche nonostante siano ri-edizioni dei precedenti. È la ragazza più amata d’America nonostante le sue relazioni complicate con le altre celebrities. Le ragioni di quest’ascesa incontrastata verso vette che si allungano sempre di più le spiega bene un articolo di Rolling Stone, che vi consigliamo caldamente di leggere se siete fan di TS (ma anche se non lo siete, in fondo).
Proviamo a sintetizzare, per quanto possibile: la sua vita privata, le love stories, le amicizie famose e i dissidi con le altre superstar alimentano una continua narrazione che non solo tiene accesi i riflettori su di lei, ma si snoda anche attraverso i testi delle sue canzoni; è un’artista in continua evoluzione, in una metamorfosi perenne che la fa sembrare ora scanzonata, ora riflessiva, poi adulta, insicura, consapevole, un po’ country, un po’ folk, certo comunque una popstar, fedele a sé stessa eppure in vesti sempre nuove (non solo in senso metaforico); è diventata un’icona LGBTQ+ e un simbolo del femminismo e dell’emancipazione, riuscendo nell’impresa di riappropriarsi dei diritti delle sue vecchie canzoni reincidendole daccapo, e facendo uscire intanto versioni deluxe, canzoni scartate e poi recuperate che ci portano dritti a un altro argomento: Taylor è sempre presente. Da quell’esordio nel 2006 ha fatto in modo che non ci dimenticassimo di lei neanche per un secondo, non come quei cantanti che ti fanno aspettare anni e anni per un nuovo album (vedi alla voce Rihanna).
Ora, per riprenderci da questa deviazione e tornare al punto fondamentale, vien da chiedersi come mai Taylor Swift non sia tanto famosa in Italia. È vero, la sottoscritta parla con un certo dolore nel cuore, essendo una fan sfegatata di TS, una di coloro che hanno tentato di accaparrarsi un biglietto per il suo ritorno in Italia (breve storia triste: non ce l’ho fatta). Ma proprio in qualità di fan, mi sono chiesta le ragioni per cui l’Italia non sia allineata al resto del mondo occidentale da questo punto di vista. Ne ho trovate due. Prima di tutto, Taylor non è sempre stata Taylor. La sua popolarità è cresciuta esponenzialmente dopo il terzo album, Red, nel 2012, e quindi con il successivo 1989 del 2014. Difatti, è da quest’ultimo che arrivano le due hit di TS più trasmesse a tutt’oggi dalle radio italiane, Shake It Off e Blank Space, tanto da far sembrare che non esista nient’altro né prima né dopo. Da allora, in Italia è iniziato un decennio che, musicalmente parlando, coincide con una sorta di italianizzazione prevalente dei gusti e del mercato, con una colonizzazione totalizzante delle vendite, degli ascolti e delle trasmissioni. Sanremo ne è un esempio emblematico: se un tempo i cantanti di chiara fama si guardavano bene dal parteciparvi, oggi invece sgomitano tra di loro per un posto all’Ariston, mentre gli ospiti internazionali diventano merce rara a favore dei superospiti nostrani, con conseguente rinnovato prestigio del festival per antonomasia. In sintesi, ascoltiamo più musica italiana e meno musica straniera.
La lista dei cantanti italiani di successo si allunga di giorno in giorno, e questo (anche) perché siamo diventati più inclusivi, aprendoci a generi che fino all’altro ieri erano relegati a una nicchia, come l’hip-hop. E qui veniamo al secondo punto. L’inclusione, infatti, non è propriamente tale, perché riguarda soltanto la musica che possiamo incasellare da qualche parte e coincide con quello che riteniamo sia mainstream. Neanche tutto l’hip-hop, dopo tutto, trova spazio nelle principali radio e tv (il nome Cor Veleno vi dice niente? No? Appunto). Insomma, parliamo di musica dance, di reggaeton, di soft rock e, ovviamente, di pop. Non a caso, la produzione di TS più popolare qui da noi, l’album 1989 con quelle Shake It Off e Blank Space di cui sopra, coincide con la sua fase più propriamente pop.
Sta di fatto, però, che Taylor Swift non è esattamente una popstar a tutto tondo, come lo erano ai bei tempi Britney Spears e Christina Aguilera e come lo sono oggi Dua Lipa e Katy Perry. No, perché TS, che ha esordito come stellina del country, è rimasta ancorata alle sue radici, cioè a quel genere musicale tipicamente americano e che a noi fa al massimo alzare le spalle. Tant’è che nel 2020 sforna due album che con la sua produzione pop non c’entrano niente – e anche quando ha continuato a confrontarsi con la pop music, l’ha piegata alle sue esigenze. Insomma, fa parte della schiera di quelli che negli ultimi dieci anni ci hanno mostrato le altre facce del pop, e che, pertanto, non riescono a sfondare il muro dell’italica indifferenza.
Prendete Lana Del Rey, che è diventata la voce del pop malinconico facendoci (ri)scoprire una musica che oggi chiamiamo comunemente indie o alternativa, vincendo premi su premi senza sosta. Oppure Lorde, di cui le radio passano unicamente Royals e Team sebbene sia una degli artisti simbolo della Gen Z. E che dire delle Haim, o dei Paramore, di Olivia Rodrigo, degli Arctic Monkeys? La lista sarebbe talmente lunga che questo non ne è neanche l’inizio. Lì fuori c’è tutto un mare di musica di cui noi italiani ignoriamo completamente l’esistenza. Per così dire, perché non è poi che sia del tutto vero.
Quando Spotify ha rivelato i dati del wrapped di quest’anno, è risultato che TS è la seconda artista donna più ascoltata in Italia (oltre a essere la più ascoltata in assoluto a livello globale). Davanti a Madame, Annalisa ed Elodie, ma dietro alla rapper Anna, un’altra che fatica a guadagnarsi lo spazio che merita. Ora, considerando che Spotify nel nostro paese viaggia intorno ai 14 milioni di utenti, è plausibile immaginare che la maggior parte di essi siano giovani e giovanissimi. Adolescenti, più che altro. Che poi sono quelli che muovono il mercato, che acquistano dischi, vanno ai concerti e spingono i loro beniamini quando si tratta di fargli vincere una statuetta.
Un tempo, tutti loro avevano un altro grande palcoscenico da cui ascoltare le grandi star della musica internazionale, che aveva il nome di MTV. Soltanto lì potevi trovare tutto, ma proprio tutto il catalogo musicale che questo mondo avesse da offrire. Ok, oggi abbiamo ancora qualche radio tematica come Radio Freccia o l’eterogenea selezione di Radio Deejay, ma sono aghi nel pagliaio. Quanto spesso i rapper d’oltreoceano finiscono nelle nostre rotazioni, nonostante i riflettori accesi su questo genere da noi negli ultimi anni? Eppure, questi sono cantanti che ti riempiono le arene e gli stadi con spettacoli da far rabbrividire, anche in Italia. Quest’estate a Roma parlavano tutti di Travis Scott, ma vi sfido a rintracciare una sua canzone su una radio nazionale. E lo dice una che di radio ne ascolta tanta, ogni giorno. È come se le reti principali si ostinassero a ignorare una fetta di mercato che esiste e che si prende comunque la sua parte. Siamo un paese che non registra le novità e le evoluzioni in corso, dove l’invasione delle band k-pop e della musica messicana non è arrivata, dove l’hip-hop afroamericano è scomparso, e dove le popstar che non si possono ballare in discoteca non esistono. E mica perché tutto questo non ci interessi. Ma il popolo reclama pane, e loro ci danno le brioches. Logico che poi una come Taylor Swift ci metta tredici anni tra un concerto e l’altro in Italia.
Marina Blasetti
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