Romanzo feroce, Ballata dello scarafaggio di Shpëtim Selmani, edito in Italia da Crocetti nella splendida traduzione di Fatjona Lamçe, è una vertigine, un piede nell’abisso.
Lucido nelle sue analisi, disarmante, sempre in bilico – eppure perfettamente in equilibrio – tra la testimonianza della disperazione sua e del suo popolo e l’impegno incessante, sfinente, nel condurci tra le piane vaste e le vette più inaccessibili della dolorosa condizione umana, l’autore rivive attraverso la memoria una delle pagine più dolorose della storia contemporanea: la guerra in Kosovo del 1999. Un avvicendarsi tra la sua storia intima e quotidiana e quella collettiva, a rimarcare che piccolo e grande, personale e sociale sono un’unica realtà.
Figlio de l’Educazione sentimentale di Flaubert, il romanzo di Selmani racconta la caduta di una generazione privata dei propri diritti e dei propri sogni e il rinsaldarsi del potere di una classe dominante meschina e senza scrupoli. Selmani ci parla apertamente di ambizione, dubbio, ostilità, legami, desiderio, volontà e anche della sua pigrizia: è il racconto di un’iniziazione alla vita.
Strutturato in forma diaristica – cinquantaquattro brevi quadri in stile frammentato – Ballata dello scarafaggio si muove tra il passato e il presente della vita dell’autore, raccontando, con stile asciutto ed essenziale, gli orrori e la bellezza della vita di tutti gli esseri, umani e animali. Lo fa con ostinazione, delicatezza e rabbia, senza alcuna pretesa né intento di riparare il mondo, insegnare qualcosa o consolare.
Le frasi spezzate e la sintassi paratattica, che rammentano il rumore di un proiettile, non impediscono all’opera di risultare compatta, consapevole, fluviale.
Il retroterra di Selmani è la letteratura, la musica, gli incontri, ma anche la guerra, la sua condizione di bambino, adulto e padre. E così mescola Hemingway e Houellebecq, Tom Waits e Brodskij, Anne Sexton e Dylan, Bandini, Knausgård, il punk-rock dei Lindja, Maradona, Sepulveda, Puškin, il castello di Lavigny e la piattaforma Zoom. Colto e popolare. Perché tutto contribuisce a costruire la storia degli uomini e il singolo uomo.
“Il mio problema più grande in letteratura è il mio problema più grande nella vita – la pazienza. Nella vita, con pochissime parole, riesco a dare un finale alle cose. Ho un’ottima capacità di chiudere e aprire nuovi capitoli. Così, anche nella scrittura, con un frammento riesco a chiudere un capitolo importante. Non so è una virtù o un vizio. Non so se faccio bene o male”.
Siamo stati abituati a ben altre dichiarazioni di poetica, ben altre confessioni.
“Ogni volta che leggo Bolaño, mi prende la tristezza. Non voglio vedere nessuno, tutto il mio mondo si inginocchia, e vago alla ricerca di lacrime che non sono le mie.Bolaño è come l’acqua calda sulle mie mani deboli, quando lavo i piatti”.
Céline disse che ci sono due soli modi di scrivere: fare letteratura e costruire spilli per inculare le mosche. Shpëtim Selmani fa poesia, bisbiglia, urla, accarezza, frusta. Compie i gesti che qualsiasi altro uomo compie. E lo fa allo scoperto, senza divise né armi, senza alcun potere che non siano il dubbio, il pensiero, la ricerca della sua identità. Lo fa attraverso la letteratura.
“Non ho mai nutrito speranze e sono sempre stato caratterizzato da un pessimismo brutale. Mi sarebbe piaciuto lavorare in un nido svizzero. Tutto il giorno. E poi la sera vedere mia moglie e mio figlio ridere, per poi chiudere la giornata in uno studio meraviglioso. Questa è tutta la letteratura dei secoli. Guardare dalla finestra senza scrivere niente. E basta. E di fronte a questa immagine si arrenderebbero tutti i re della dissoluzione e i più rigorosi nichilisti che ci ha donato il mondo”.
Fa male la guerra, dentro e fuori. È la livella che ci mostra a cosa siamo destinati. Ma Selmani ci avverte che fa male anche la letteratura che muore di insignificanza, la ricerca della commozione facile, la lingua approssimativa e dozzinale.
Ci vuole ostinazione per resistere alla propria vita e a quella altrui e avere la forza di raccontarla. Occorre uno sguardo affilato e morbido e la capacità di conoscerne la differenza. Shpëtim Selmani la conosce.
Oggi c’è qualcosa a cui guardare, in questo panorama letterario asfittico. Un giovane autore, un piccolo grande Bolaño kosovaro, che sa – lo testimonia nelle pagine più belle, quelle dedicate al suo rapporto con la moglie e il figlio – che prima di essere un grande scrittore l’uomo deve voler lottare per divenire umano.
Sarah Majocchi
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