Categorie: CinemaCultura

I David di Donatello non ci rappresentano più

La settimana scorsa l’Accademia del Cinema ha annunciato le nomination ai prossimi David di Donatello. Magari fate parte della schiera sempre più nutrita delle persone a cui non gliene frega proprio niente, anche perché i David non sono gli Oscar, e l’Italia non è Hollywood – e di questi tempi, comunque, sembra esserne quanto mai lontana. Ma se per voi il più prestigioso premio del cinema italiano vuol dire ancora qualcosa, è probabile che abbiate anche voi delle aspettative. Nonostante sembri tutto sempre più scontato e meno divertente.

Fare pronostici sui David ormai è un po’ come scommettere su chi sia il calciatore più forte tra Messi e i vostri compagni di calcetto delle elementari. Chi se lo aspettava che C’è ancora domani facesse incetta di nomination? Praticamente tutti. Esattamente come ci aspettiamo che Garrone venga eletto regista dell’anno. La prevedibilità è certamente di casa, in questa edizione che si annuncia ancora più noiosa degli stessi Oscar, dove l’unica vera gara era tra Emma Stone e Lily Gladstone nella categoria della migliore attrice.

Inutile dire che la competizione abbia perso tutto il suo appeal già un mese prima della cerimonia. Perlomeno, nei giorni precedenti l’annuncio potevamo ancora sperare che, a questo giro, qualcosa sarebbe cambiato. Perché, anche se la corsa agli Academy Awards è più spietata e lascia vittime più ambiziose sul terreno, qualsiasi cerimonia di premiazione che includa delle nomination comporta anche delle esclusioni. E la questione, signori, sta tutta qui.

Mixed by Erry

La faccenda potrebbe essere riassunta in un affare puramente numerico. Se si considera la totalità delle categorie, al netto di quelle dedicate ai cortometraggi, ai documentari e al film internazionale, ci sono ben 105 candidature in ballo. Ossia, centocinque slot da occupare. Va da sé che sia impossibile candidare centocinque film diversi, giacché la logica delle probabilità vuole che ci sia sempre qualcuno che ottenga più di una nomination. Difatti, i film che ne abbiano avuta almeno una sono solo 21.

Ora, però – fate attenzione, perché qui sta il bello – di questi ventuno, i cinque candidati al miglior film si sono presi, insieme, 65 nomination. Io non sono bravo in matematica, ma mi sembra che siamo ben oltre il cinquanta per cento. Se ci si aggiunge anche Comandante di De Angelis, il totale sale ancora, e arriviamo a ben 75.  Settantacinque candidature su centocinque andate a sei soli film. Ma, poiché si parlava di esclusi, sapete quanti film sono stati inizialmente proposti all’attenzione dell’Accademia? 188.

Se tanto ci dà tanto, questo vuol dire che sei film su centottantotto si sono presi tutti i riflettori, lasciando ad altri sedici appena le briciole, e ad altri centosessantadue neanche quelle. Per dare la misura del fenomeno, quest’anno agli Oscar 28 film si sono contesi un totale di 95 nomination (esclusi animazione, corti e documentari), mentre ai Golden Globe 33 film si sono spartiti 86 nomination. E parliamo di competizioni internazionali, dunque più agguerrite. È mai possibile che in una manifestazione di stampo territoriale siano così pochi titoli a farla da padroni, e non ci sia spazio né visibilità per chi è fuori dall’establishment?

Misericordia

Perché, in fondo, anche di questo si tratta. I favoriti ai David di quest’anno sono tutti nomi già noti e stranoti, alla critica, al pubblico e perfino ai sassi. Attori e registi che dominano la scena da venti, trenta o quarant’anni. Un’altra curiosità: dei venti nomi candidati nelle categorie per gli attori, soltanto tre sono alla prima nomination (e uno di questi è inglese). Volendo fare un altro parallelo, agli Oscar quest’anno ce n’erano ben nove di primo pelo (si fa per dire), tra cui due dei quattro vincitori. Mauro Uzzeo, regista e fumettista, che della giuria dei David fa parte da oltre dieci anni, ha sintetizzato molto bene il problema, in un post polemico quanto appassionato sul suo profilo Facebook:

«Vi porto qui un esempio che mai come quest’anno è esemplificativo di quanto possa essere sbagliato il sistema di votazione che attuiamo: la candidatura per il Miglior Esordio alla Regia.
Lo sappiamo bene, esordire alla regia è un sogno per molti autori e produrre un esordio è un evidente rischio per molti investitori, distributori, esercenti. […] Che senso ha quindi permettere a volti giganteschi del nostro cinema, che già hanno tutto il risalto e il riconoscimento che vogliono, di “militarizzare” anche questa categoria?
Leggere i nomi di Paola Cortellesi, Micaela Ramazzotti, Giuseppe Fiorello – autori, lo ripeto, di film bellissimi – è doloroso, perché sono nomi che già rappresentano l’establishment, che sono già tra i massimi esponenti dell’industria audiovisiva italiana […] e trovarli in quella categoria è un vero e proprio schiaffo in faccia a tutti gli altri esordienti che si sono trovati a gareggiare in uno scontro assolutamente impari che li ha automaticamente esclusi dalla competizione».

Il fatto non è che bisognerebbe escludere campioni di incassi come Paola Cortellesi o fuoriclasse come Marco Bellocchio dalle competizioni principali, o dedicargli categorie apposite. Il problema è che non riusciamo proprio a vedere gli altri. Quelli che, se tutto va bene, devono accontentarsi di una nomination, magari per gli effetti visivi. Perché, insomma, non riusciamo ad apprezzare un cinema giovane e potente come quello di Sydney Sibilia e del suo Mixed by Erry, o di piccole perle come Disco Boy di Giacomo Abbruzzese e Patagonia di Simone Bozzelli, come Misericordia di Emma Dante o Con la grazia di un dio di Alessandro Roja?

Il discorso non si limita soltanto all’esordio alla regia, ma va più a fondo, e investe un’altra, triste realtà: in Italia ormai facciamo le stesse cose da troppi anni. E quelli che provano a fare qualcosa di diverso – o di più piccolo – finiscono tra quei centosessantadue che restano fuori. Bisognerebbe allora provare a intervenire sui gusti, e prima ancora sulle abitudini. Provare ad aprire la porta per fare entrare anche chi viene dal basso, chi fa fantascienza, chi si cimenta con l’action e il cinecomic, e chi non ha grandi distribuzioni alle spalle. I David di Donatello, così come sono, non ci rappresentano più. Non rappresentano la varietà del nostro cinema, né la stratificazione di un pubblico che va in sala (anche) per vedere le commedie, gli horror e i supereroi. Forse, nell’attesa di veder competere tutti insieme ad armi pari, si potrebbe inventare una nuova categoria, che so, dedicata solo al cinema di genere, o solo agli autori under 30. Allora sì che potremmo tornare a sperare che ci sia effettivamente ancora un domani – ma diverso da oggi.

Andrea Vitale

Andrea Vitale

Napoletano di nascita, correva l'anno 1990. Studia discipline umanistiche e poi inizia a lavorare nel cinema. Nel frattempo scrive, scrive, scrive sempre. Ama la musica e la nobile arte delle serie tv, ma il cinema è la sua prima passione. Qualunque cosa verrà in futuro, non abbandonerà la penna. Meglio se ci sia anche un film di mezzo.

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