What Did I Do to Be so Black and Blue? American Fiction e il politically correct
Dopo il successo della sua autobiografia Up from Slavery, lo scrittore e oratore Booker T. Washington viene invitato alla Casa Bianca da Theodore Roosevelt: è il 1901, e Washington è il primo afroamericano a essere ricevuto da un Presidente degli Stati Uniti. B.T. Washington è anche il primo rappresentante della gente di colore a denunciare ciò che, dopo oltre un secolo, è ancora obbligo per un afroamericano che vuole farsi accettare della società bianca: l’umiltà, o la pretesa dell’umiltà.
Così B.T. Washington in Up from Slavery descrive quest’obbligo, e altri collegati:
“Da più di mezzo secolo la mia razza non ha mai smesso di essere sottoposta in America agli esami più severi: viene messa a verifica la nostra pazienza, la nostra sopportazione, la nostra perseveranza, la nostra capacità di tollerare i torti, di resistere alle tentazioni, di essere parsimoniosi, di acquisire competenze e usarle; la nostra combattività, la nostra abilità nel commercio, la nostra preferenza per il vero sul superficiale, per la sostanza sull’apparenza; il saper essere grandi ma piccoli, colti ma semplici, nobili eppure sempre al servizio di tutti.”
Come stupirci, quindi, se Coleman Silk – il protagonista di The Human Stain (La macchia umana), di Philip Roth, ispirato alla figura del sociologo Melvin Tumin – si finge bianco per poter far carrieranell’accademia pur essendo di ascendenza africana? Nessuna politica sociale riformista è riuscita finora a pareggiare veramente la condizione dei cittadini statunitensi afrodiscendenti a quella degli statunitensi bianchi. Cord Jefferson ce lo ricorda scrivendo e dirigendo American Fiction, e ripartendo proprio da qui, da un uomo nero che pretende di essere soltanto un uomo.
Ha ragione Jefferson: oggi non siamo così distanti da quei giorni come crediamo. Nuovi conformismi si insinuano tra le pieghe della società, il politicamente corretto si fa strada come nuovo canone, così che la buona educazione lavi le nostre coscienze e la forma mascheri un contenuto mai realmente accettato. Ammettiamolo: possiamo tollerare una minoranza etnica purché non pretenda di essere come noi e continui a rendersi facilmente riconoscibile.
Thelonious “Monk” Ellison, protagonista di American Fiction, ispirato al romanzo Erasure (2001) di Percival Everett (in italiano Cancellazione, tradotto da Mauro Bosonetto per Instar, 2007) non ci sta.
Scrittore afroamericano colto e benestante, professore in un esclusivo college privato di Los Angeles, Monk è troppo poco nero. Soprattutto, non è della questione nera che vuole scrivere.
Seguendo sullo schermo la vita di Monk, non possiamo non ricordare un altro Ellison, lo scrittore Ralph Ellison, autore nel 1952 di Invisible Man, vincitore del National Book Award for Fiction (Uomo invisibile, traduzione di Francesco Pacifico, Fandango 2021). L’uomo invisibile protagonista del romanzo lo è a tal punto da non avere un nome, ed è sufficiente che indossi un paio di occhiali per essere scambiato per un altro uomo.
Monk di American Fiction è uno scrittore che non vende, a dispetto della qualità dei suoi testi. Il nostro protagonista – interpretato da Jeffrey Wright, in corsa per una statuetta alla notte degli Oscar di quest’anno come attore protagonista – rivendica il diritto di affermarsi come scrittore senza doversi adattare allo stereotipo del reietto di colore. Si rifiuta di corrispondere al buon selvaggio caro a Rousseau, a ciò che il mondo dei bianchi si aspetta da lui.
Per puro spirito di contraddizione si finge Stagg R. Leigh (citando la canzone folk Stagger Lee, che racconta l’omicidio di Billy Lyons da parte di Lee “Stag” Shelton). Stagg/Monk è un pericoloso detenuto, evaso e ricercato dall’FBI, che racconta la sua storia violenta e drammatica nel romanzo autobiografico Fuck. Lo scherzo diverte Monk e il suo agente, ma il mondo dell’editoria li prende sul serio: Fuck diventa un bestseller e il mondo del cinema si attiva per girarne una trasposizione cinematografica. Stagg/Monk guadagna una cifra che mai avrebbe sperato di guadagnare: nessuno tra i suoi romanzi ha mai ottenuto un tale successo.
Il suo sconforto aumenta quando si accorge di essere caduto in basso quanto l’odiata scrittrice Sintara Golden (Issa Rae), che detesta, segretamente invidia e scopre molto più intelligente di quanto pensasse, benché asservita al sistema.
Esilarante la scena di Monk in smoking, la statuetta da vincitore del New England Book Association’s Literary Award stretta tra le mani, a terra esanime, crivellato dai colpi dei cecchini del l’FBI. Dopo esserci fatti una risata (si tratta infatti di una fantasia di Monk), viene spontaneo interrogarci sul significato di questa scena: è la letteratura che viene assassinata dai premi letterari o lo scrittore che cerca a tutti costi visibilità e successo?
A cosa dobbiamo, quindi, una risonanza tale del film da aver ispirato il discorso di apertura della proclamazione dei semifinalisti del Premio Strega di quest’anno?
Certamente serpeggia un certo senso di colpa nelle élites culturali, che ci conferma che il discorso sul politicamente corretto si sta spingendo troppo oltre, finendo per costruire una nuova egemonia culturale che prescinde dalla qualità.
Credo di poter affermare che personalità del calibro di B. T. Washinton, Ralph Ellison e Phillip Roth abbiano fallito nel loro intento di scardinare gli stereotipi che, ancora oggi, se non regolano più le nostre leggi, rimangono dati fondanti del nostro immaginario.
Ne è testimone lo stesso American Fiction di Cord Jefferson, che, per affrontare un tema scottante come il nuovo razzismo contro le minoranze, ormai in parte emancipate da una condizione di ignoranza e povertà sia economica che culturale, si sente costretto ad affrontare il tema in modo superficiale, confermando il discorso di B. T. Washington sull’umiltà. Fulgido esempio è ancora la scrittrice Sintara Golden che, pur di accedere alla stessa élite che critica, illudendosi di poter farne parte, accetta lo stereotipo che le viene cucito addosso.
Sembra non esserci spazio per l’individuo. Che i neri parlino della questione nera, gli omosessuali della condizione della loro comunità, le donne si facciano portavoce della loro liberazione.
Quindi, solo l’uomo bianco, ricco, maschio, occidentale può permettersi di travalicare certi confini? No, oggi nemmeno lui. Basta ricordare l’accesa polemica che si è scatenata dopo la pubblicazione di The Hill We Climb di Amanda Gorman, giovane attivista afroamericana che commosse la platea leggendo un suo componimento poetico all’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca. Si aprì un lungo contradditorio sulla scelta dei traduttori del suo libro, che coinvolse le case editrici di tutto il mondo.
…se non posso tradurre una poetessa perché donna, giovane e afroamericana nel mio medesimo secolo, non posso neanche tradurre Omero giacché non sono un greco dell’ottavo secolo a.C. E nemmeno Shakespeare, non essendo un inglese del XVI secolo. Chiosa il traduttore spagnolo Victor Obiols, ritenuto inadatto al compito dalla casa editrice americana Viking Books. Il dibattito arrivò anche in Francia, dove il quotidiano Le Monde ospitò il punto di vista del traduttore e scrittore André Markovicz intitolato Nessuno ha il diritto di dirmi quello che ho il diritto di tradurre o meno.
Quindi, lo stesso Monk potrebbe a buon titolo affermare che nessuno ha il diritto di dirgli quello che lui ha il diritto di scrivere o meno.
Ma la società di oggi pare avere pronta una risposta: Stai buono, Monk, e collabora. In fondo, hai già avuto più di ciò che ti spetta.
Sarah Majocchi