Ci sono un profeta di Dio e il diavolo in persona. C’è il fuoco e c’è la provincia americana, polverosa e stordita dalla monotonia. Ci sono due romanzi che si parlano, senza toccarsi mai. Il primo è Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor, il secondo è L’estate che sciolse ogni cosa di Tiffany McDaniel.
Mi hanno parlato per la prima volta di Flannery O’Connor alcuni anni fa, ma continuavo a non comprare niente di suo. Poi un giorno ho chiesto a una di quelle persone che me ne avevano parlato: “Sì, ma da dove inizio?”, e quella mi ha detto che andava bene un libro qualunque, perché vale la pena leggere qualsiasi cosa abbia scritto.
Quindi ho comprato un libro qualunque di Flannery O’Connor, uno che s’intitola Il cielo è dei violenti, perché mi sembrava un titolo molto giusto e poi perché nella bandella ho letto la frase «il richiamo di una fede tanto brutale quanto potente e liberatoria» e ho subito pensato – così, a pelle – che avrei potuto ritrovare quella nota brutale quanto potente e liberatoria che mi risuonava nelle orecchie mentre leggevo L’estate che sciolse ogni cosa di Tiffany McDaniel. E ho davvero avuto l’impressione di ritrovare quell’arida cittadina nordamericana braccata da un caldo infernale (non a caso) che un’estate dovette fronteggiare il diavolo in persona.
Perché, in fondo, non c’è molta differenza tra un ragazzo che dice di essere il profeta di Dio (Tarwater de Il cielo è dei violenti) e uno che, invece, è l’incarnazione di Satana (Sal, de L’estate che sciolse ogni cosa). Entrambi si portano addosso un fardello che nessuno di noi vorrebbe: una missione in un mondo di ottusi, bigotti e scienziati. Il peggior pubblico possibile per accogliere una parola che viene da luogo sconosciuto, dalle viscere della terra o da sopra il cielo. In ogni caso, un luogo lontano, in cui certe regole perfette e inviolabili mostrano la loro inapplicabilità non appena mettono piede sulla terra dei viventi.
Ne parlerò in ordine cronologico, anche se io li ho letti in ordine inverso.
Tarwater è solo, ubriaco marcio, ha quattordici anni e deve seppellire il suo prozio morto. Ma è soprattutto solo, nella sperduta radura di Powderhead dove ha vissuto fino a quel momento.
Indossava la sua solitudine come un mantello, se la avvolgeva addosso come un indumento che simboleggiasse l’Eletto.
Tarwater ha una missione, un compito imposto dal suo ruolo di profeta. È una cosa che sa praticamente da sempre. Aveva soltanto quattro anni quando, rimasto orfano, venne adottato dallo zio Rayber, il maestro, e subito dopo rapito dal prozio Mason, il profeta (senior), che ha in serbo per lui un futuro più giusto, il futuro che Dio ha scelto per loro. Tarwater viene cresciuto in eremitaggio nei boschi e lascia che lo zio Mason scolpisca nel suo cuore e sulla sua pelle la parola di un Dio che però lui, il giovane Tarwater, non ha mai visto.
Dopo la morte del prozio, per Tarwater è tempo di mettere in atto la sua missione: battezzare Bishop, il figlio ritardato (sic) di Rayber, lo zio adottivo spodestato, il maestro devoto alla scienza, con l’orecchio frantumato da un colpo di fucile del prozio, il giorno in cui aveva tentato di salvare il piccolo Tarwater dalle sue grinfie.
Battezzare, qualunque cosa voglia dire. Eppure questa missione divina, che non ammette repliche ma contempla solo un’ottusa esecuzione, ha dentro qualcosa che somiglia al dissenso, all’insubordinazione, a quello che potremmo anche definire: un bisogno di sapere.
Guardò brevemente gli occhi tristi dello zio dietro le lenti, con l’aria di chi smette di cercare qualcosa perché sa che non potrebbe mai trovarla. Gli occhi luccicanti scesero sulla scatolina di metallo che sporgeva dalla camicia di Rayber. «Il tuo cervello è nella scatola», chiese, «o nella testa?»
Lo zio aveva provato l’impulso di sfilarsi l’apparecchio e scagliarlo contro il muro. «È a causa tua che non sento più!», disse, torvo, rivolgendosi a quel viso impassibile. «È perché una volta ho cercato di aiutarti!»
«Non mi hai mai aiutato, nemmeno per idea».
«Posso aiutarti adesso, però», disse Rayber.
Ma forse non è Tarwater che deve essere salvato. Forse è Rayber, o Bishop. Forse l’umanità tutta. Ma come insegnano i testi sacri, quando c’è bisogno di salvezza e di redenzione, è necessario un sacrificio – e nulla purifica più del fuoco.
Sal arriva in città – Breathed, Ohio – in un’estate che scioglie tutti i gelati, e scioglie anche i pensieri e la pelle. È il 1984, un anno scolpito nell’immaginario della distopia, ma in cui sono successe tante altre cose. Nel maggio di quello stesso anno, per esempio, un gruppo di scienziati isolò e identificò il retrovirus dell’HIV e, per l’America prima, e per tutti noi dopo, quella scoperta sconvolse le coscienze e i canali d’informazione per molto tempo a venire. Saranno anni, quelli che seguiranno il 1984, segnati della paura e dalla violenza. Anni davvero “industriosi per il diavolo”. È per questo che Autopsy Bliss decide di scrivergli una lettera aperta – proprio a lui, al diavolo – e pubblicarla sul giornale locale.
Autopsy, da autopsia, che in greco vuol dire “vedere con i propri occhi”. In un mondo prossimo a sciogliersi, Autopsy decide di “vedere con i propri occhi” e invita il diavolo in città. E quello, poi, ci viene davvero.
Ma il diavolo di Breathed non è né un mostro con corna e forcone, né un mezzo uomo e mezza capra, né un gatto nero. È un ragazzo di tredici anni che si chiama Sal. È nero, sudicio e indossa una salopette di jeans. Non sarà facile per Sal farsi riconoscere per ciò che è e far accettare la propria presenza in una città dove tutti i gelati si sono sciolti e con essi, forse, anche il buon senso.
Sai, Fielding, il fatto è che quando si rompe qualcosa di cui nessuno si cura troppo, si creano delle ombre che prima non c’erano. La ciotola, prima aveva un’ombra. Una sola. Adesso ogni coccio ha la sua. Dio mio, quante ombre sono state create. Piccoli lembi d’oscurità che d’improvviso, insieme, sembrano più grandi di quanto non fosse la ciotola. È questo il guaio delle cose in pezzi. La luce muore e si fa sempre più tenue e le ombre… Quelle vincono sempre, alla fine.
E dove vincono le ombre, tanto vale accendere un fuoco per far luce.
Flannery O’Connor nasce nel 1925 a Savannah, Georgia, e muore giovane, a trentanove anni, malata di lupus. Scriveva un diario rivolto a Dio, nel cortile di cemento, ghiaia ed erba dietro casa sua. Nella prefazione a Il cielo è dei violenti, Marco Missiroli dice: “Nessuna paura delle tenebre, lei che avrebbe continuato a rifondare la letteratura americana, se solo avesse avuto qualche scampolo di esistenza in più […] Steinbeck, Melville, Anderson, pochi altri scrittori statunitensi come lei sono riusciti a non avere paura di raccontare cosa siamo”.
Tiffany McDaniel è nostra coetanea, di noi che ci ricordiamo quando le prime pagine dei giornali parlavano di HIV, noi che stiamo vivendo l’arrivo dell’AI. È nata nel 1985 in Ohio, e ci vive tutt’ora. Potete trovarla sui social, pubblicare un contenuto taggandola e ricevere un suo like. L’estate che sciolse ogni cosa è il suo romanzo d’esordio ed è già una rivelazione. Avrei preferito che fosse più lontana nel tempo, che non fosse così vera e tangibile. Perché la sua scrittura è come un’arma ad aria compressa, che fa tanto rumore senza ferirti, ma se spara da vicino poi fa davvero male.
O’Connor e McDaniel sono due autrici che ti graffiano la pelle e a cui non importa se e quanto fa male quello che scrivono. Ti danno in pasto una violenza brutale e potente, e poi sta a te decidere che farne e se pensare davvero che tutto quel dolore, in fondo, possa essere anche liberatorio.
Anna Fusari
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