Ricordate il Concerto del Primo Maggio? Certamente sì, se state pensando a quello più recente, di due settimane fa – anche perché è stato uno spettacolo grandioso, degno delle ultime, precedenti edizioni. Ma non è di quello che sto parlando: vi sto chiedendo se ricordate il concertone così com’era in principio. Non c’è bisogno che sappiate cosa fosse il concertone agli inizi, quello di oltre trent’anni fa. È sufficiente che pensiate a un’edizione in tempi più recenti, anche, che so, di otto o sette anni fa, insomma: all’epoca del Sanremo pre-Amadeus. E adesso volete sapere cosa c’entra Sanremo col Primo Maggio, vero?
Tra i miei amici, quest’anno, qualcuno mi ha fatto notare che i due eventi musicali si assomigliavano tantissimo, e questo perché le due line-up erano pressoché le stesse: Mahmood, Geolier, BigMama, Negramaro, Santi Francesi, Dargen D’Amico su entrambi i palchi, e dal Sanremo dello scorso anno sono tornati pure Ariete, Colapesce Dimartino, Lazza, Leo Gassmann, Olly, Ultimo e Tananai. L’effetto evidente è che la musica che abbiamo ascoltato, se non addirittura le canzoni, fosse la stessa. Ora, tornando alla domanda: ricordate cos’era il Concerto del Primo Maggio? Al di là delle polemiche – condivisibilissime – sullo spazio sempre più ristretto dedicato agli interventi che ne facevano un evento anche politico, era un festival di musica rock, sperimentale, hip-hop, diciamo pure: alternativa.
Una volta, quando guardavi la manifestazione su RaiTre (o dal vivo in piazza San Giovanni a Roma) assistevi a una proposta musicale un po’ di nicchia, parecchio indipendente, tantissimo fuori dagli schemi del consumo di massa. Oggi, invece, è diventata l’ennesima vetrina per il nazionalpopolare. Una volta, era la dimostrazione della stratificazione della produzione discografica italiana, oggi è un altro approdo della canzone mainstream e dei dischi di platino. La sensazione che si riceve è che ormai, nel nostro paese, suoni sempre la stessa canzone. I generi sono spariti, le band pure, e l’incrocio delle sette note produce sempre lo stesso effetto (al sintetizzatore, magari).
Non fraintendetemi: io questi cantanti qui li ascolto ben volentieri nella mia quotidianità. Però i miei ascolti non finiscono qui, con quello che propongono le radio, le playlist alla moda e, a questo punto, anche gli spettacoli di maggiore visibilità, e proprio per questo mi rendo conto che lì fuori c’è anche dell’altro. Prendiamo quanto sta accadendo nel resto del mondo. È già da qualche anno che la musica country ha iniziato a oltrepassare i confini, almeno da quando Lil Nas X debuttò con Old Town Road nel 2019. Dopo di lui, qualcun altro ci ha provato, come Walker Hayes e Luke Combs, con risultati più che discreti; poi, a febbraio, Beyoncé ha rilasciato Texas Hold ‘Em, facendone il brano country di maggior successo internazionale che la mia generazione possa ricordare. Sapete che cosa significa che una regina dei sold out abbia abbandonato gli approdi sicuri del pop per abbracciare un genere che, sulla carta, poteva essere meno fruttuoso?
Significa che la musica sta cambiando. Facciamo un altro esempio, e prendiamo un’altra scalatrice seriale di classifiche: sua maestà Taylor Swift. Non importa che ne conosciate le gesta, ci basterà sottolineare che un tempo anche lei si dilettava in brani che si completavano in performance scatenate e coreografate, mentre adesso canta su atmosfere intimiste e luci soffuse, su melodie che gli esperti definirebbero downtempo – cioè molto meno veloci e più rilassate di una canzone dance. E non è che Beyoncé e Taylor Swift abbiano perso fan: guardate i numeri che fanno negli stadi o su Spotify. Semplicemente, stanno contribuendo a trainare il trend discografico mondiale (o quantomeno occidentale) verso lidi più pacati. L’epoca delle Rihanna, delle Madonna, delle Britney Spears e dei loro inni elettropop sembra essere finita. Adesso vanno di moda la ballata rock di Benson Boone, il soul di Teddy Swims, il folk di Noah Kahan, il pop rock di Olivia Rodrigo, e poi tanto, tantissimo rap. A farci ballare sono rimasti solamente i dj di professione (comunque in calo di popolarità) e i latinoamericani, ma quella è tutt’altra musica.
In tempi non sospetti, Adele aveva già provato a indicarci la strada, ma soltanto adesso si può dire in buona compagnia. Negli anni intorno alla pandemia, la musica pop è cambiata, e abbiamo capito che non doveva essere per forza una questione da piste da ballo. Non è che la dance sia sparita – Dua Lipa, ti fischiano le orecchie? – o che tutto il resto non esistesse anche prima, è che ora si ha l’impressione che i gusti siano molto più variegati e meno settoriali.
Non in Italia, però, che invece ha seguito la tendenza opposta: se vuoi rimanere a galla nell’industria discografica, devi sfoderare tormentoni. Gli artisti italiani ormai si sono schierati praticamente tutti da quelle parti lì, persino gli insospettabili che agli esordi sembravano promettere tutt’altro. I rapper sono diventati cantanti da spiaggia pronti all’uso per l’estate, le canzoni hanno ritmi sempre più accelerati e palpitanti, la parentesi indie è durata meno di uno schiocco di dita e la rivoluzione rock promessa dai Måneskin non c’è stata.
È impossibile pensare che tutto il resto sia semplicemente sparito. Che non sia rimasto più nessuno a fare del vero hip-hop, o del rock in tutte le sue declinazioni. Magari, più plausibilmente, i gusti degli italiani si sono appiattiti su un’unica modalità: quella della musica dance-pop, della musica mainstream, della musica buona per i balletti su TikTok (detto senza alcuna polemica. O forse sì). E mentre le nostre classifiche chiudono i cancelli a chi non si conforma, ma anche a chi italiano non è – in Italia è diventato praticamente impossibile scalare posizioni per le canzoni straniere – gli spazi dedicati a quell’altra musica si assottigliano, si riducono, si smaterializzano.
Non è soltanto il concertone, dove in passato avevi più probabilità di andarci se non eri nessuno: pure le radio passano quasi tutte praticamente gli stessi titoli a ripetizione, MTV col suo carattere cosmopolita ha chiuso i battenti, il Festivalbar e Top of the Pops non hanno lasciato eredi, di programmi tv a carattere musicale sono rimasti quasi solo i talent, e nei pochi superstiti, comunque, non si vede un solo nome internazionale. E il bello è che sia successo proprio mentre internet esplodeva e la musica diventava una questione importantissima, come dimostrano proprio gli exploit di Sanremo, del concertone e dell’Eurovision.
Ma, vivaddio, è proprio grazie a internet che riusciamo a sapere che non è tutto qui. Che la musica non inizia e finisce con l’Ariston, né per quanto riguarda l’Italia, né tantomeno per il resto del mondo. È vero che i miei ascolti vanno oltre la proposta di radio e tv nazionali, ma a giudicare dalla popolarità che certi artisti hanno da noi direi che non sono sola. Però io non mi accontento più di andarmi a cercare la musica che fa per me nei meandri di qualche piattaforma, e se alcuni “luoghi” dove poterla ascoltare non esistono più, almeno possiamo difendere quelli che ci restano. Reclamare il palco del Primo Maggio e non solo, pretendere un posto per gli artisti emergenti e quelli stranieri, per la black music, per il jazz, per la musica popolare (e non solamente pop). Un posto che dia la misura della stratificazione dell’intera produzione, e anche di quello che succede oltre i nostri confini.
Marina Blasetti
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