Mi avvicino alla guancia per baciarla, ma ha perso il senso della misura: le sue labbra seccate dai farmaci sfiorano per sbaglio le mie. Le narici si riempiono dell’odore pungente d’ospedale.
Un tubicino trasparente la tiene collegata a una boccetta di vetro in cui la fisiologica si mescola ad altri veleni che dovrebbero alleviarle il dolore. È stata dimessa da una settimana e le vene sono collassate, i muscoli avvizziti, le ossa consumate. I capelli bianchi, sempre ben pettinati, le stanno grandi. Il corpo si è ridotto a un involucro itterico che scompare nel pigiama.
Nonna prova a cambiare posizione, aggrappata alla sdraio imbottita che i figli le hanno sistemato in soggiorno, ma riesce a malapena a districarsi dal tendine di plastica.
Anni fa, per un intervento alla cataratta, ha quasi perso la vista, e da allora fissa tutti, me compreso, con sospetto. Mi sporgo in avanti per farmi inquadrare meglio e apro la bocca per urlarle qualcosa, come fosse ancora nel suo laboratorio da sarta dall’altra parte della casa. Dopo il danno agli occhi, si è rifiutata categoricamente di mettere l’apparecchio acustico.
«Mi raccomando, fai tutto quello che i dottori ti hanno consigliato» le ricordo con un sorriso che mi irrigidisce le guance.
La zona lombare comincia a farmi male. «Un problema delle persone alte» ha detto l’osteopata. Mi raddrizzo e cerco una sedia libera, però il fremito delle sue dita mi distrae.
«È vero che ti sei messa a cucire l’altro giorno?»
Lei solleva il mento per incrociare la linea del mio sguardo.
«Non so stare ferma, a nonna» accenna un sorriso sdentato.
Tenta di smuovere il sedere, e prova, questa volta, a fare forza sulle gambe, ripiomba, però, nella rigidità del tronco.
«Ciao Nonna Salice.»
Le parole sfumano nel vociare dei parenti; lei continua a scrutarmi, stoica, con i rami che le pendono fuori dai braccioli.
«Te ne vai?»
Tiene chiuso lo scollo della maglia con le dita nodose; vorrei carezzarle i capelli, ma i suoi occhi senza pupille, incastonati tra le guance increspate e la fronte liscia, mi respingono. Provo, lo stesso, a prenderle la mano.
«Allora, che vestito mi devo mettere per la cresima, secondo te?» si intromette zia Serenella, con la sua solita prepotenza «Ne ho uno di raso, ti ricordi quello verde? Forse è troppo? Eh?»
Nonna guarda dritto davanti a sé, verso il grande specchio sul comò, e tace. Ha smesso, da giorni, di leggere il labiale.
«Eh Titì? Titina, hai capito? Mi senti?» insiste zia, nel tentativo di accarezzarle la fronte. Lei la schiva.
«Mi devi lasciare, Nè! Hai capito? Sei una dannazione!» mostra il pugno con il braccio libero.
La zia la canzona per qualche secondo, poi gira i tacchi.
Intanto nonna si studia il gomito, osserva le grinze che le pendono sotto le ascelle e scuote la testa.
Alle mie spalle il brusio si è fatto più impertinente, a tratti culmina in risate. Lo placo schiaffeggiando l’aria con violenza. La valigia nel corridoio mi distrae. Lancio un’occhiata allo schermo del cellulare. La cerco e ritrovo il suo profilo intento a bisbigliare qualcosa che mi sfugge: una preghiera o un’imprecazione. È rimasta identica, eccetto per la piega più marcata della guancia, qualche baffetto bianco e il colorito pallido; la malattia ha risparmiato anche il naso, con le narici larghe e la punta tonda.
Quando torna a guardarmi, è tardi; devo andare.
Paolo scrittore nasce nel 1880, nelle viscere del Teatro dell’Opera di Parigi. Fino a prima di Leroux era un bambino troppo annoiato dallo studio per interessarsi alla lettura. Adottato in seguito da Carlos Ruiz Zafon e istruito da Rowling, King, Tolkien e Zio George R. Martin, realizza che la scrittura è l’unico mezzo capace di dare consistenza alla sua immaginazione. Si laurea in Comunicazione, fa un Master in Sceneggiatura e Drammaturgia, traduce, fa l’assistente regia sui set cinematografici, ma sogna di abbandonare la società per trasferirsi nel Cimitero dei Libri Dimenticati, e scrivere per vivere, vivere per scrivere.
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