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Innamorarsi di Demon Copperhead a pagina uno

Non avrei mai voluto lasciarlo, Demon. Seicentocinquanta pagine insieme e non ero pronta.
Barbara Kingsolver – una delle più influenti autrici americane contemporanee, vincitrice con questo romanzo del Premio Pulitzer 2023 – non si risparmia, affonda la lama fin dalla prima pagina. Lascia che sia Demon a raccontarti tutto, e lui ti accoglie così:


Prima di tutto, sono nato: c’era una discreta folla ad assistere all’evento e, come sempre, è tutto quello che ha fatto: il grosso del lavoro è toccato a me, dato che mia madre era per così dire fuori combattimento.


Il libro è già scritto, tutta la storia di Demon Copperhead è in queste poche righe: tanta fatica, una folla indifferente, gli affetti incasinati. Tutti i crismi di un romanzo di Dickens (non poco citato dal titolo), ma dentro ci sono anche i pick-up, la coca-cola e l’oxy. Il condimento d’eccellenza per un romanzo americano dell’entroterra.

Le stagioni

La lettura di Demon Copperhead è durata mesi per me, con giorni di lettura intensa e settimane di pausa. Un po’ come si fa con le serie tv: arrivata alla fine di una stagione della vita di Demon avevo bisogno di staccarmene per un po’. E, in attesa dei nuovi episodi, ripensare a quelli vecchi, riviverli all’improvviso e sentirne la mancanza.

La prima stagione (per come la vedo io) arriva fino alla spirale priva di senso dei servizi sociali. Demon vive in una di quelle case mobili con sua madre. Una poco più che adolescente con problemi di dipendenza da alcool e droghe, ma che, in realtà, è una comune ragazza giovanissima e molto sola della Lee County.

Una regolare storia famigliare in stile hillbilly, in una terra miserabile e dimenticata da Dio, qualunque tipo di Dio. L’errore di Demon, bambino cresciuto troppo presto, è di credere che non possa andare peggio. Non immagina che quella madre possa anche morire, garantendogli così un biglietto di sola andata per un destino simile al suo: alcolizzato, drogato, fiaccato dalla solitudine. Ma a questo ci si arriva con calma, con molta calma.

Gli anni degli affidi – diciamo pure, la seconda stagione – sono gustosamente kafkiani, da farti arrovellare le budella per la rabbia, il disappunto, la voglia di gridare a qualcuno: “Ora basta!”.

Addentrarmi nelle stagioni successive sarebbe fare spoiler, quindi preferisco tenermi sul vago. Raccontare quanto ho amato Demon, quanto avrei voluto affondare le mani tra le pagine e strapparlo via da quella miseria, tenerlo al sicuro accanto a me, coltivarlo, permettergli di crescere al sicuro, ma anche, strano a dirsi, fare in modo che potesse trasmettermi la sua forza, la sua genuina e inconsapevole resilienza, il suo sarcasmo da far cascare le braccia. Sì, perché nonostante l’inasprirsi della tragedia, pagina dopo pagina, Demon mi ha fatto anche ridere. Quel ragazzo riesce a spezzarti il cuore e a farti ridere con la stessa intensità. Che, a pensarci bene, se qualcuno riesce a farti ridere, è quasi certo che poi ti spezzerà anche il cuore.

Demon Copperhead

E Demon fa ridere. Fa proprio ridere con la bocca allargata e i denti fuori. Ha i capelli di rame, come la testa dei serpenti velenosi (copperhead), che gli strisciano ai piedi quando gioca intorno alla sua casa mobile.

Per molti versi è un bambino come tutti gli altri. Ama i supereroi dei fumetti (anche se non ne possiede molti) e ha un talento naturale per il disegno (perché chi vuoi che gliel’abbia insegnato!). I suoi mostri non sono come quelli degli altri bambini – non sono pelosi, con i denti affilati e mille occhi – sono uomini violenti che picchiano lui e sua madre, o assistenti sociali con gli occhi a palla. Quei mostri lì, Demon li disegna sui fogli che gli capitano sotto mano e diventano caricature incredibili, dal tratto finissimo: in pratica, il suo unico lasciapassare in una vita che sembra già segnata.

Odia le parole “Mi dispiace” al punto che vorrebbe “prenderle a pugni”. Ama l’oceano, anche se non l’ha mai visto. I confini di Demon non arrivano mai a una distesa d’acqua: nei suoi occhi ci sono solo terra, strade polverose e città desolanti chiuse dagli Appalachi. Eppure lui sa che ama l’oceano e vuole andarci, ci prova e fallisce, ma tanto lo sa che l’acqua è lì e non va da nessuna parte.
Questo è un punto importante della storia di Demon. L’oceano, l’acqua sono simboli di redenzione e salvezza determinanti nella storia. Demon è nato “con la camicia” quasi affogato dal sacco amniotico e sa – gli hanno detto – che questo vuol dire che non annegherà mai. Ecco il suo superpotere da supereroe. L’oceano, il luogo sicuro creato nelle sue fantasie da bambino, lo attende come una terra promessa in cui mettersi in salvo. E tu non puoi far alto che pregare, per tutto il romanzo, che prima o poi ci riesca.

Mi ricorda…

È un’opera monumentale, completa, piena di cose che amo. Mi ricorda tutti i romanzi di formazione che ho letto: c’è la miseria di Dickens, l’abbiamo già detto; l’ilarità sprezzante e struggente di Holden Caulfield; la ritualità e l’intimità di quei classici propinati alle ragazze romantiche (che comunque adoro) Alcott, Austen, Brontë. C’è un retrogusto di Mark Twain, qualcosa che mi riporta alla mente quei grossi libri illustrati della Fabbri con le copertine blu letti da bambina; ma è, al contempo, pura narrativa nordamericana contemporanea, con tutta quella sua narrazione esatta e puntuale delle “cose”: elenchi di oggetti, quotidiani e di culto; marchi iconici e manie di consumo coatto.

C’è qualcosa di De Lillo, nell’acuta osservazione dello spreco, dei rifiuti, dell’obsolescenza. Nella rappresentazione di ciò che noi, occidentali consumisti, consideriamo niente e che un figlio della miseria e del dolore considera omaggio, fortuna, tesoro.

Io e Maggot supplicavamo sempre Mr Peg di portarci con sé quando portava i rifiuti alla discarica della contea. C’erano un sacco di cose da vedere. Gente che se ne andava con molta più roba di quanta ne avesse portata in termini di mobili, elettrodomestici che si potevano recuperare, e altri oggetti del genere. Il fatto è che ci si potrebbe costruire tutto un mondo alternativo, con quello che la gente butta via.

In uno di quei mucchi di spazzatura, Demon ci lavorerà, ma è solo una delle stagioni della sua vita. Quella in cui è costretto a pagare l’affitto alla famiglia affidataria per una brandina per cani infilata in uno sgabuzzino (l’avevo detto che era da aver voglia di gridare “Ora basta!”).

Ho faticato molto a staccarmi dalle pagine ogni volta che la vita mi richiamava alla realtà. È una storia in cui ci si immerge ed è difficile uscire. Ti ottunde i sensi, o forse li amplifica, ma in una dimensione diversa. Leggevo ed ero dentro la puzza di un corpo non lavato per giorni; del letame secco sotto le scarpe; dell’urina stagnante nei bagni delle stazioni di servizio; del cibo raccattato e spesso andato a male. Leggevo e sentivo gli stessi morsi della fame, il dolore per un ginocchio frantumato e la scossa sotto la pelle che ti danno le pillole di Oxy e mille altre cose buttate in corpo per mettere a tacere tutto il resto: il dolore, la rabbia, la solitudine, lo smarrimento.

Essere un bel libro

I bambini come me, con le mamme adolescenti che ci spalmavano il whisky sulle gengive per non farci piangere e ci mettevano la coca-cola nel biberon, fanno pena al mondo. Eppure avevo cominciato come qualsiasi ragazzino per bene, dicevo grazie e per favore, facevo i compiti a casa e cercavo di guadagnarmi un sorriso da tutti. Giocavo per vincere, con il mio minuscolo orgoglio e i miei piccoli sogni.

Quest’anno ho lavorato in una scuola e ho sentito un gran parlare di “creare ambienti stimolanti”, “coltivare talenti”, “pensare a offerte formative per i periodi critici”. A scuola si cerca di fare in modo che le potenzialità di ogni alunno trovino il loro modo di esprimersi e svilupparsi, si corre con i programmi, le offerte formative e i corsi di aggiornamento per evitare che quei talenti, quelle scintille, si sprechino.

Mentre leggevo la storia di Demon, immerso nel mondo fino al collo, che passa di mano in mano – da una famiglia naturale, a un’affidataria, a un’adottiva –; Demon che frequenta la scuola, lavora ed è circondato da tanti adulti che neanche si accorgono della sua esistenza, del suo talento, del suo potenziale, della sua scintilla, pensavo a tutti i Demon che siederanno tra i banchi di un’altra scuola, dove non potrò vederli e non potrò neanche provare ad aiutarli. A quelli che a scuola neanche ci metteranno mai piede.

Ed è quando lascio che la mia mente scivoli in questa drammatica spirale d’impotenza che questo romanzo mi entra direttamente dentro la pancia, mi sconvolge, mi commuove e diventa una di quelle storie che non riuscirò più a dimenticare.
In pratica, fa il suo lavoro: essere un bel libro.

Anna Fusari

Anna Fusari

Fa tante cose diverse, ma principalmente le piace leggere libri e dire la sua. Ha studiato Lettere Moderne a Napoli e Filologia Moderna tra Padova e Grenoble; ha lavorato in Francia come insegnante di Italiano e come responsabile della comunicazione in un’associazione culturale. Ha fatto un Master in Editoria alla Sapienza e uno stage al Battello a Vapore. Continua a collaborare con alcune case editrici italiane specializzate in letteratura per infanzia e ragazzi (Giunti e Gribaudo) e fa altri lavori che in parte la rispecchiano e in parte no, ma le permettono di fare quello che le pare nel resto del tempo.

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