Il sesto giorno – Sara Cordero

Il sabato l’ho appreso da bambina: dalla camera da letto verso l’ingresso, un procedimento a ritroso, indietreggio, mi lascio il pulito davanti, non guasto l’integrità.
La casa è un alloggio di quarantadue metri quadri, foglio 29, particella 794, subalterno 17, due vani in cui lo sporco si accumula ai piedi delle cose [panche piantane poltrone], si infrange sui battiscopa, onde di cotonina e polvere e materia eretta e viva. Lo sporco, ex vita tricologica [capelli peli cheratina] o spargimento di spore, fibre tessili, e acari che possiedono forma e figura dei primissimi unicellulari. Strofinare le piastrelle, acqua fredda e conegrina, porzionare l’ambiente in quattro aree, lo straccio va strizzato sennò restano gli aloni, cambiare l’acqua a discrezione del colore, se grigia, se opaca, cambiarla con altra acqua fredda e conegrina, areare la stanza, attenzione a non scivolare o urtare il mobilio. Mobilio barocco di mogano acquisito da precedenti abitatori, strabocca di nero nei giorni di poca luce ed esprime fame di cere vergini. Capita che il campanello ci sorprenda, me e la casa, nell’intimità delle cure, e mi nascondo, la casa si rabbuia. Non ci siamo, andate via; e torno a pettinarla sulle ciocche dei tappeti, alliscio le nappine, gli strascichi di tende come ora sui panni faccio passare le mani [stirare appianare levigare] per poi riporli a torre sul letto rincalzato a nuovo. È lei a domandarlo, il sesto giorno, di sanificarla. Di santificarla. Di liberarla dagli incrostamenti sui fornelli; chiede di agire, lasciare agire la chimica sui residui quotidiani nella bocca nel microonde, pure gli utensili per grattugiare e scolare e filtrare: non deve esserci traccia di cibo, di unto, di grasso altrimenti una donna non merita considerazione. Sfrego la parola, considerazione, come fosse un sapone solido e quadrato, un cubo bianco efficace sull’acciaio, lo lucida a nuovo; tra i bruciatori il lavoro va svolto con minuzia e l’unto si scioglie. Considerazione. Poi le cromature del rubinetto dell’acquaio, è uno specchiamento deforme, la spugna va passata finché non urla lo squittio acido dei vetri, degli specchi quando li si asciuga. L’ultimo passaggio con una pezza di lana.
Ancora lasciare areare la stanza per favorire l’asciugatura delle superfici. Nella prima ora antimeridiana del sabato, il posizionamento del centrotavola sancisce la fine dei compiti casalinghi, di solito è una fruttiera o un cestino di potpourri. Chiudo le finestre, in strada un bambino con un supereroe in mano chiama la madre. In un’altra casa la donna che io chiamo  madre piazza il bastone dello spazzolone tra gli stipiti della porta se il pavimento è bagnato, e io pure.

A mio marito lo insegnò un parente dal lato di papà, per sapere la figlia a venta guardé cum c’ha l’é la mare. Lo disse al tavolo di nozze, l’uomo saggio nel suo dialetto, e lui se ne lasciò convincere ché le cose parlate con cadenza sembrano più vere. Osservava mia madre, e già non la poteva soffrire, una comara imbellettata sempre con due uova in mano, la guardava nei pranzi domenicali, poi esaminava me. Scelse un giorno di andare con un’altra; un giorno l’ha deciso: ci dividiamo.

Il sabato l’ho appreso da mia madre. E certi rimedi domestici per le formiche e che i ragni portano male visti prima del sole e anche un trucco per i gerani: diventano belli se gli si interra la pillola anticoncezionale.
Mia madre che copre i divani con teli e lenzuola per non guastare la seduta, e io pure; mia madre con i panni tirati e stesi con la tecnica del risparmio di pinze e la sera bisogna ritirare perché non si lascia la biancheria fuori durante la notte – porta maledizioni –, e io pure; mia madre che si ostina con aceto e pagliette e insiste insiste insiste, e io pure; mia madre e le mani che passava sul mio viso, non sono mai state carezze; mia madre che per interromperla bisognerebbe morirla assieme alla casa. E io pure.


Sara Cordero nasce a Asti nel mezzo degli anni Novanta. Legge e scrive, sempre di notte.

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