Parthenope. Anatomia di una città che non sa amare
Suggestivo andare al cinema a mezzanotte e uscire dalla sala con le luci di Napoli che ammiccano. Deve averlo previsto Paolo Sorrentino che ha voluto anticipare l’uscita del suo nuovo film Parthenope con una serie di anteprime a tarda ora. La data ufficiale è il 24 ottobre 2024, ma molti hanno scelto di non attendere. Io tra questi.
Dunque Parthenope: è una tentazione molto forte quella di tacciare la pellicola di autocelebrazione, di masticazione ripetuta degli stessi argomenti, di superficialità o di estremo estetismo che camuffa mancanza di argomenti, eppure – se anche è vero che Sorrentino è un regista che si autoincensa – proprio con questo film dimostra di avere ancora da dire. Non lo fa però in modo semplice: impacchetta il contenuto in una scatola sontuosa, che effettivamente cattura e distrae l’occhio, ma chi sa vedere (come dirà uno dei personaggi principali del film, il professor Marotta) coglie la sua vera malinconia.
Parthenope è l’incarnazione in senso letterale di Napoli: una ragazza nata dal mare, come Venere e le sirene, in una famiglia alto-borghese di Posillipo legata all’armatore Achille Lauro. C’è, nell’arco temporale che va dal 1950 al 1968, una rappresentazione della città splendente e mangiata dal mare, proprio come ce la descrive Raffaele La Capria in Ferito a morte: i palazzi nobili a picco sul golfo, Palazzo Donn’Anna, l’azzurro, le barche, l’orizzonte felice, le discese a mare private, la ricchezza, l’erotica noia borghese. Sorrentino non è estraneo a questa figurazione: ricordo la bellissima sala con il lampadario infranto in È stata la mano di Dio, nonché la Villa del Cardinale famosa per la scena della signora Gentile che addenta una mozzarella. E come dimenticare Villa D’Abro con la sua cisterna aperta sul mare nella scena in cui il regista Capuano chiede a Fabietto: «la tieni una cosa da raccontare?».
Parthenope, suo fratello Raimondo e Sandrino, l’amico d’infanzia che la ama di un amore puro e tenero, si spostano a Capri: l’isola scoppia di un fermento ormai perduto, frutto della presenza di artisti, scrittori, miliardari capricciosi, feste in piccole discoteche alla Anema e core, e incontri come quello tra la protagonista e John Cheever, famoso scrittore statunitense. Il suo personaggio sarà uno dei primi a subire la malìa di Parthenope, e uno dei primi che la ragazza tenterà di amare. Parthenope è bella, bellissima, ma di una bellezza che ha del divino, del soprannaturale: a mio avviso, l’incarnazione della città nel suo corpo non è solo una suggestione narrativa, ma un fatto concreto. Parthenope è Napoli, e ce lo dimostra il fatto che parla per aforismi, come fosse la Sibilla Cumana. È intelligentissima, ma si pone le domande sbagliate, inciampa sui concetti, proprio come una divinità che impara a essere umana. Ma soprattutto Parthenope non è capace di amare: come la città che finge di volerti e accoglierti, ma in realtà sta solo pensando a se stessa.
Parthenope riassume questo concetto in una domanda dolcissima a Cheever: «posso innamorarmi di te?». Questa è difatti una richiesta di aiuto, perché non sa come fare, e tutti i suoi tentativi successivi saranno frutto di questo dubbio: guarda gli altri amarsi per emularli, senza darci la certezza che le piaccia donare il suo corpo.
A Capri si coglie un’altra cosa importante (alcuni indizi sono seminati prima): esiste un trio erotico, incestuoso, ma profondamente commovente. Parthenope, Raimondo e Sandrino. Nell’abbraccio tra i tre vi è tutto il pathos del teatro greco (nonché un omaggio a Bertolucci e a The dreamers). Finalmente, un regista – e si dovrebbe tornare a farlo anche in letteratura – racconta un’altra sfumatura dell’amore, quello indicibile e fortemente intriso di mitologia che è l’amore erotico tra fratello e sorella. Anche grazie a questo particolare sottolineo la natura divina di Parthenope: la mitologia greca e romana è piena di storie di questo tipo e il teatro antico non si faceva problemi a rappresentarlo. Se Parthenope è una dea, la Napoli divina in forma umana, allora non dovrebbe indignare che ami suo fratello: pensiamo a Edipo, a Elettra, a Selene e Elios, a Zeus ed Era – erano fratello e sorella – e potrei non finire più con gli esempi. È un archetipo. Probabilmente, Raimondo sarà l’unico vero amore della sua vita, tutti gli altri saranno dei surrogati, sia in senso platonico che in senso carnale (Raimondo, tra l’altro, che nel film soffia sulle persone come gesto d’affetto, ricorda moltissimo il dio Zefiro/Eolo, dunque un’altra divinità canonica). Questa ipotesi è avvallata anche da un’altra scena presente nella seconda parte: Parthenope abbandona lo splendore di Posillipo e si cala nella Napoli crepuscolare e lercia, in mezzo ai vasci, rappresentati con un pittoricismo degno di Caravaggio (e un richiamo alla Napoli miserabile e milionaria di Totò). Qui, assiste a una scena di sesso che pare arrivata direttamente dal teatro greco, nel gioco di luci e ombre, nel pathos, nella tragicità di un rapporto che sfiora la violenza. Il consesso di persone riunite che assiste all’atto sessuale è metafora popolana di un Olimpo che guarda alle passioni umane e le invidia, perché effimere. Gli astanti si leccano le labbra, si eccitano, esaminano la scena con morbosità. Parthenope stessa, dopo, farà l’amore con uno dei presenti, per emulazione, per capire il significato di quello che ha visto.
Ci saranno altri due tipi di amore nella sua vita: quello cerebrale per il professor Marotta, il suo docente di antropologia culturale alla Federico II, e quello grottesco per il vescovo di Napoli che nel film prende il nome di Tesorone (gioco di parole che si collega al tesoro di San Gennaro). Nel primo caso, Parthenope subisce il fascino e il peso del sapere: impara, studia, brilla su tutti, accoglie la figura del docente come quella di un padre. Inoltre, nello svelamento del segreto del professore, ci insegna una lezione importante: la vera bellezza, a volte, si nasconde dietro forme incomprensibili, come anche la fede in essa. Bisogna solo sapere vedere. Nel secondo – e qui torna ancora una volta la critica di Sorrentino all’universo del clero, delle suore, dei preti corrotti e ossessionati dal sesso, dal denaro, dal potere – Tesorone è la retorica della devozione di un popolo per la sua città e i suoi santi: Tesorone è la plebe che offre omaggi di inestimabile valore a Parthenope. Così, i due – in una delle scene più belle del film – mescoleranno immacolato e osceno, blasfemia e pornografia. Un altro amore bizzarro, sul quale Parthenope indugia senza sentimento, con la curiosità di un chirurgo che studia un corpo aperto. Il dualismo è piuttosto palese: una città ricca di cultura ma anche di erotismo. Le due facce di una stessa medaglia. Una città, come dirà lei stessa, che scambia erroneamente l’irrilevante per il decisivo.
Nella sua incapacità di amare c’è molto anche del Fellini di 8½: Claudia (Cardinale) nel film ripeterà più volte una frase – “perché non sa voler bene”. Ecco, neanche Parthenope sa volere bene. Lei è la divinità delle “idee balorde”: tutto la annoia, tutto le sembra irrilevante, si lascia vivere come farebbe qualcuno che ha a disposizionel’eternità.
Non vi è però solo l’amore della città e per la città: Sorrentino affida una piccola parte a Luisa Ranieri, una nemmeno troppo velata Sophia Loren, che scoppia in un eccesso d’ira e ne dice di cotte e di crude su Napoli e i napoletani.
Qualcuno ha criticato la rappresentazione stanca di Sorrentino della donna: la solita femme fatale sulla via del disfacimento che in gioventù è stata agghindata solo per il piacere dello sguardo maschile. Non sono d’accordo: intanto, Parthenope non si spoglia, nemmeno Ranieri; in secondo luogo – e spesso lo dimentichiamo – la nudità femminile non è a esclusivo appannaggio degli uomini, ma provoca uguale piacere anche nelle donne. Forse è un concetto difficile da assimilare, ma vi assicuro che anche a noi donne piace guardare altre donne nude.
In conclusione: un film intriso di simbologia, perfetto sunto di quei sentimenti di devozione e rancore che tutti, tutti – anche i napoletani stessi – provano per la città. Un elogio alla sua natura millenaria e divina, ma anche un morbido rimprovero a un luogo che solo in apparenza ama tutti, accoglie tutti, cerca di capire tutti, ma che nell’ammaliamento emanato succhia la vitalità di chi ha la fortuna e la sfortuna di imbattervi per continuare a sopravvivere. Una vera sirena, nome omen: Parthenope.
Deborah D’Addetta