Se avessi le spine di un cardo – Deborah D’addetta
L’uomo davanti a me s’infila il dito indice nel naso. Avvita, avvita, avvita, fin quando non ne tira fuori una pallina gelatinosa. Non sa dove metterla, si guarda intorno. Nessuno gli dà retta, sono tutti concentrati sul feretro carico di rose rosse. Io sì, io gli do retta. Io guardo lui, lui guarda la sua caccola. Appallottola, poi la incolla sul vestito della donna davanti.
La donna davanti piange. Un pianto disperato, finto. Porta veletta e abito di pizzo nero dalla vistosa scollatura, l’uomo della caccola non può sapere che le si vedono i capezzoli. Il prete la rimprovera con gli occhi, nascosti dietro lenti altrettanto vistose, di un azzurroceano. Indugia molto sul solco dei seni.
«Non abbiamo potere di decisione sulla nostra nascita» tuona dal pulpito, «e men che meno sulla nostra morte!».
Vorrei obiettare che possiamo scegliere di suicidarci, ma resto in silenzio. Nello spazio di questa navata si raccoglie il bestiario di tutte le miserie umane. Sento la vecchia dietro di me bisbigliare alla sua vicina che la soprano del coro è incinta, ma il marito è sterile, lo sanno tutti. Quello che non sanno è che la parola soprano si declina al maschile anche quando la cantante è donna e che esiste una locuzione per designare i soprani leggeri, quelli specializzati nell’interpretazione a teatro di personaggi comici, libertini e frivoli: “soprano soubrette”.
Mi sembra potrebbe piacere alla vecchia, ma resto in silenzio. Elenco tutti i soprano soubrette che ricordo: Barbarina, Le nozze di Figaro, Mozart; Despina, Così fan tutte, Mozart; Zerlina, Don Giovanni, Mozart; Serpina, La serva padrona, Pergolesi.
Mi rendo conto solo adesso che tutti hanno il nome che finisce per -ina. Mi domando come si chiami la donna incinta. Forse Giuseppina. Ha la faccia da Giuseppina.
Mia madre sosteneva che le chiese fossero piene di tesori, ma solo per chi sapeva davvero vedere: la statua della vergine, il marmo policromo, le candele gocciolanti, l’odore di incenso, i ventagli che si muovono in sincrono, il chierichetto che dondola i piedi per la noia, i capelli ben acconciati della vedova – sono di un biondofragola, devono essere freschi di parrucchiere. Non è un mio pensiero, è sempre la stessa vecchia dietro di me che bisbiglia alla sua vicina.
«Il nostro caro defunto ora è nella gloria del Padre!» aggiunge il prete.
Vorrei obiettare che se tutti i defunti vanno in paradiso allora non vedo perché ossessionare i vivi con la paura dell’inferno, ma resto in silenzio. Ci sono delle contraddizioni che non capisco in questo credo religioso.
Mio padre invece sosteneva che le chiese fossero piene di terrori, per tutti, non solo per chi sapeva vedere: l’odore di sudore, un neonato che piange, il colorito livido dei figli del morto – tre, dovranno fare a botte per spartirsi la cospicua eredità –, la durezza della panca di legno, i fiori di cardo mariano ai piedi dell’altare.
Se avessi le spine di un cardo.
La vecchia sussurra ancora. Chiede chi è quella seduta accanto alla figlia della cugina della cognata del morto. La vicina risponde, pare sia una di quelle infide ragazze che vanno via dal paesino per poi tornare vestite in modo eccentrico, con strani grilli per la testa.
Se avessi le spine di un cardo potrei.
Le cose belle bisogna saperle vedere. Le cose brutte sono sotto gli occhi di tutti.
Il cardo mariano si chiama mariano perché leggenda vuole che le striature bianche sulle sue foglie siano gocce di latte cadute dal seno mentre Maria allattava Gesù.
Il coro intona Il Signore ha messo un seme e il prete scende dal pulpito per incensare la salma. La vecchia canta storpiando le parole, urlando come se quello nella bara fosse figlio suo.
Se avessi le spine di un cardo potrei conficcarmi nella carne.
Mi sposto di banco, l’uomo della caccola continua a cercare nel naso, la donna in abito nero di pizzo si china su un fazzolettino di cotone ricamato, le sue tette fanno capolino, vedo la vecchia sussurrare convulsamente alla sua vicina.
Ora davanti a me ci sono due ragazze giovani. Ridacchiano. Sono ancora vergini, penso, non hanno ancora assaporato il dolore e la morte. Ma qualcos’altro sì, qualcos’altro l’hanno assaporato.
«Lo sperma di mio cugino sa di pepe» sento dire alla più bassa.
Tira fuori lo smartphone e mostra la foto di un ragazzino nudo disteso su lenzuola a fiorellini azzurri. L’altra lancia un urletto, tutte le teste si voltano verso di lei. Il prete la rimprovera con gli occhi; indugia molto sulle gambe scoperte dalla minigonna.
Se avessi le spine di un cardo potrei conficcarmi nella loro carne, fiorire in rovi, arrivare alla gola e stritolare. Poi, silenzio di tomba.
Deborah D’Addetta, classe ’86, più napoletana che pugliese. Ha un feticcio per gli spaghetti al pomodoro, i cetriolini sott’aceto e la fotografia a pellicola. Quando non è impegnata a mangiare e scattare, scrive, o almeno così le piace pensare. Nel maggio 2024, esordisce con il romanzo Maleuforia, edito da Giulio Perrone Editore.
L’illustrazione è di Ginevra Liguori.