È ferro, arrugginiscono quindi è ferro. Per tutto il tempo connettono, creano connessioni, in silenzio, così sembra — non si sente la ruggine rosicchiare. Fanno rumore solo quando ci passano sopra i treni, sferragliando. È un rumore di ferro, un urlo di metallo.
È carne, carne e nervi, provo dolore quindi è carne, è nervo. Neuroni, cellule del nervo. Per tutto il tempo connettono, creano connessioni, in silenzio, così sembra — non si sentono gli assoni agganciarsi ai dendriti, fare clic, collegare. Fanno rumore solo quando ci passa attraverso un flusso locale di corrente, sferragliando.
È un rumore di ferro, un urlo di metallo.
Dalla mia finestra al secondo piano li guardo tutti i giorni, tutte le ore, cambiare colore col sole, li vedo traslucidare quando la pioggia li bagna. Seduta al tavolo delle mie ore più lunghe, li guardo esattamente a me di fronte, posati da cent’anni su un piano orizzontale a dieci metri da terra. Divento consapevole della loro esistenza soltanto quando li vedo. Li ascolto sferragliare, proprio davanti alla mia finestra ai miei occhi, all’altezza delle mie orecchie essi sferragliano, in una condensazione di attrito cocente, sferraglio incostante, lineare, senza curve parallassi inclinazioni pendenze.
Dalla finestra dei miei occhi aperti, o chiusi anche, li immagino cambiare forma, cambiarmi l’umore, traslucidare quando il mio pianto li bagna. Seduta al tavolo delle mie ore più lunghe, li sento pesarmi sulla testa, dentro, posati da trent’anni nella corteccia del mio cervello, a irrorarmi la materia grigia, spingere i miei movimenti volontari, gli involontari. Li ascolto a volte sferragliare dentro le mie orecchie, in una condensazione di attrito cocente, sferraglio incostante tortuoso ritorto in migliaia di curve, parallassi inclinazioni pendenze.
Clang si chiama il rumore che fanno, quando ci passano sopra i treni, rallentando perché arrivano o partono dalla stazione vicina. Clang, fragore, sferraglio.
I binari del treno sferragliano nelle due direzioni del viaggio, l’andata – la stazione di Tra – il ritorno – la stazione di Tu –. [1]Li sento attraversati, incisi, sfregati, graffiati, fenduti, guadati, percossi, straziati dal passaggio delle rotaie in acciaio fucinato al maglio, rettificate, lubrificate, a centosessanta chilometri all’ora, nello sferraglio metrico dell’acciaio urlante.
Clang si chiama il rumore che fanno, quando ci passano attraverso le scariche parossistiche, improvvise, popolazioni di neuroni che contraggono tra loro sinapsi reciproche. Clang, fragore, sferraglio.
Le scariche di neuroni sferragliano nelle due direzioni neurosensoriali, l’andata – l’orecchio interno – il ritorno – la corteccia acustica del cervello –. Divento consapevole della loro esistenza soltanto quando li sento attraversati, incisi, sfregati, graffiati, fenduti, guadati, percossi, straziati dal passaggio del segnale, la mielina isolante, multilamellare, a cinquecentoquaranta chilometri all’ora, nello sferraglio millimetrico delle sinapsi urlanti.
Subito dopo, quando nessun treno ci passa sopra, i binari smettono di esistere forse. Tornano al loro silenzio, alla loro espressione latente. Tornano al sole assorbito dalla ruggine incedente, alla pioggia riflessa che barbaglia. Entrano nell’indifferenza.
La chiamano indifferenza perché non suscita niente, desiderio repulsione simpatia interessamento partecipazione turbamento, niente. Sono là, posati da cent’anni su un piano orizzontale a dieci metri da terra, eppure sembrano solo un ricordo. Ci si potrebbe chiedere se esistano propriamente.
Subito dopo, quando nessuna corrente ci passa attraverso, le cellule dei nervi smettono di connettersi, di esistere forse. Raggiungono complessi punta-onda lenti, due virgola cinque hertz di frequenza, le onde alpha, beta, theta, delta su un ritmo rallentato di fondo. Entrano nell’assenza.
La chiamano assenza perché si perde coscienza. Io perdo coscienza. Mi dicono che continuo ad esistere, le persone mi vedono, ci sono, sono visibile, ho gli occhi aperti, non muovo un muscolo ma esisto, sono presente. Io non sento niente, nel mentre, i suoni, il suono del mio nome, perdo il nome, il contorno l’involucro la forma del mio corpo, perdo il suo cavo interno, il rimbombo del sangue il sangue il pugno nelle mani, il tatto dei polpastrelli sulla polpa gengivale.
Prima, le mioclonie spasmano la mia carne, i miei nervi, ali di ferro dentro le mie orecchie, il rumore del ferro che sgranaglia. Eliche elettriche martellano le cellule ciliate, i nervi del mio orecchio interno.
Da lì, senza saperlo, entro nell’assenza, dove non sono niente, non provo niente, non sento niente, nessun suono rumore clangore provenire da fuori, da dentro. Perdo il caldo il freddo perdo la gioia il dolore la stanchezza la voglia la paura, perdo la coscienza la memoria il movimento, la mia forma di esistenza. Sono là, mi dicono. Gli occhi sbarrati, la carne i nervi immobili, la gola secca, mutacica, la testa insonorizzata, l’anartria disartria l’afasia della corteccia del mio cervello. Ci si potrebbe chiedere se esisto propriamente.
[1] Roma trastevere-Roma tuscolana: Tra-Tu.
Mariana Branca cammina per pensare, perciò pensa coi piedi. Torna a casa e scrive, a polmoni pieni.
Se potesse, nuoterebbe, per pensare con le pinne, scrivere con le branchie.
L’illustrazione che accompagna il racconto è di Marta Caretto.
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