La mattina non esiste una sveglia. La parola posponi sullo schermo, non le appare mai.
L’albero che vede quando apre gli occhi ha la xilella. Sì, è un ulivo pugliese e fa del suo meglio per oltrepassare le persiane bordeaux, o per qualcuno rosse, sempre aperte. Con il sole negli occhi, i raggi di luce nei capelli, gli avanzi di luna del giorno prima, e una moka sul fuoco, gira il suo volto verso la porta che incornicia il tavolo della cucina ancora in ombra.
In silenzio, ascolta il rumore della moka mentre viene svitata e sciacquata sotto l’acqua, il suono del filtro che batte sul bidoncino del compost per eliminare la posa stantia del giorno prima, il cigolio dello sportello che contiene il barattolo del caffè, il tintinnio del cucchiaino, gli innumerevoli tentativi per accendere il fuoco.
Con gli occhi ancora di sbieco, osserva lui, in slip, di ritorno nel suo lato sinistro del letto. Tra le mani porta il buongiorno sotto forma di due tazze: rigorosamente grandi, in gres nero porcellanato, realizzate a mano durante i suoi pomeriggi dedicati all’artigianato.
Per rompere il ritmo quotidiano e contribuire al solito rituale, quel martedì la caffettiera l’aveva preparata il giorno prima. Il lunedì sera, uscita dalla lunga doccia calda, aveva infilato l’accappatoio bianco di spugna, si era diretta verso la cucina, e aveva disegnato sulle cementine anni Cinquanta tracce che sarebbero svanite in un attimo. Dopo aver preparato la caffettiera, tra il tappo e il bricco aveva incastrato un post-it su cui aveva scritto: Il caffè è pronto.
Ora il caffè riempie la tazza. Ora il vapore riempie la stanza. I piedi gelidi si scaldano l’uno contro l’altro e la penna blu si poggia sulla carta. Pare che stia scrivendo un diario della gratitudine, una di quelle agende preimpostate, con spazi da compilare ogni mattina: tre cose di cui sei grata oggi, tre intenzioni per il giorno seguente. Un’agenda che ha tutta l’aria di essere uscita dal periodo New Age, assieme alla cristalloterapia e la meditazione vipassana.
Prima di scrivere la prima parola del giorno, sfoglia l’agenda e trova, tra le intenzioni dei giorni precedenti, quelle su cui avrebbe dovuto focalizzarsi:
Mentre supina, ridacchia di queste riflessioni, lui esce dal bagno e le chiede se oggi può indossare la felpa marrone o è troppo simile alle occhiaie?
«Sì, dai vai, puoi metterla, anche se oggi sei un po’ più bianco!»
E così si alza per cercare il maglione bianco. Apre il cassetto e lo trova in alto a destra. Sa ancora di sole, detersivo e vento. Lo spiega, lo avvicina al suo volto ed esordisce con un altro: «Sì, hai bisogno di bianco!».
Lanciandogli il maglione tra le mani, cerca le calze, le infila e va verso la porta di ingresso. Esce prima ancora che possa lavarsi la faccia, le mani e i denti. Apre la porta di casa. Osserva gli alberi, il cielo e i gatti. Fuori ci sono loro. I gatti. Sono due, dal numero variabile, sono gatti liberi e stanziali. Li chiama con nomi che cambiano ogni giorno. Sono in punti diversi: il piccolo nero con gli occhi gialli è vicino al forno a legna, non miagola, gracchia. Gatto-senza-nome è il suo nome. L’altro è Japan, bianco e nero, grande, occhi a mandorla, immobile sotto un fico con il suo portamento da sfinge.
Si volta e va verso il viale alla ricerca di pigne, calendule, campanule, foglie di carrubi, rami per alimentare il fuoco, pezzetti di plastica inopportuni tra i fiori.
Al rientro, poggia tutto il suo bottino in un angolo del pavimento e guarda il tavolo. Osserva la sua agenda, il vaso con le campanule gialle raccolte qualche giorno prima, la ciotola quasi vuota con una noce, un piccolo peluche e un capello nero lunghissimo incastrato tra la ciotola e i fiori. Prende il capello e, con entrambe le mani lo tende alle due estremità e lo tira, come se fosse un elastico. Non si spezza. Si spezza solo al quarto tentativo. Sorride. I capelli sono sempre stati miei amici, scrive sull’agenda. Con un ghigno sul viso, quando finisce di scrivere, le cade un foglio con una calligrafia incomprensibile. La guarda e non la riconosce. La riguarda. Una scrittura storta, illeggibile con una poesia al centro della pagina: Amore amore amore lieto disonore, Sandro Penna. Questa volta scoppia a ridere, richiude l’agenda e si dirige verso il camino per accendere il fuoco. Lo costruisce simulando una capanna, poi al centro ci posiziona degli aghi di pino secchi, lo accende e aspetta che pian piano il fuoco diventi sempre più grande. Il suono somiglia a quello delle noci quando le apri a due a due, l’una contro l’altra.
Mentre si prepara un secondo caffè della giornata, questa volta in tazza piccola, apre l’ultima noce rimasta, capo noce di nessun’altra noce, con la punta di un coltello. Sul cellulare cinque vocali del giorno prima da ascoltare, fuori dalla finestra Japan e il gatto senza nome non parlano tra loro.
Claudia Cellamare, da sempre Kedy; scopre solo ora che, in turco, significa “gatto”. Facilitatrice e progettista si muove dove sente che ci sia qualcosa da fare e osservare. Nelle campagne di Brindisi, in Puglia, conduce la sua vita randagia e stanziale.
L’illustrazione è di Adele Bilotta.
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