In teatro a dicembre si muore di freddo, nonna si ostina a non voler accendere il riscaldamento, neanche quando fa le prove costume. Ha dietro di sé schiere di assistenti, attori e attrici che viaggiano con giacche, sciarpe, coperte, ma nessuno di loro ha veramente il coraggio di lamentarsi. Nonna si appunta uno spillone tra i capelli bianchi, si allaccia il suo vecchio cardigan da ballerina e grida: «Muovetevi! Se vi fa freddo è perché non state lavorando, muovetevi».
Ho perso gli scarponcini; non li perdo mai, lo giuro, lo giuro sui miei calzini a pois. Ogni volta che entro nei teatri di nonna levo le scarpe. I teatri sono fatti di legno, sanno di polvere e di legno, d’estate levo pure i calzini e ho i piedi pieni di schegge. Mi piace quando in teatro la nonna entra per prima, lei inizia a gridare con gli assistenti: «Sistemare! Tutti i costumi devono essere in ordine e le parrucche in fila» e mentre si occupa di loro, io resto da sola. Cerco il centro del palco, alzo lo sguardo e inizio a girare su me stessa. Giro, giro, giro, giro, giro finché non casco per terra, sul legno. Il teatro è una scatola chiusa in cui la gente si siede per credere in qualcosa che non esiste. Nonna strepita perché le persone devono vedere solo la finzione: «Se notano una spilla, una zip nuova, una parrucca montata male, vedono! Vedono! Stolti! Siete un branco di stolti!».
La mamma è convinta che non dovrei passare così tanto tempo con lei, che parla con troppe parolacce, ma è così buffa quando col suo bastone dirige tutti e tutte, come se avesse davanti un’orchestra, come se fosse la persona più importante lì.
Io mi rintano dietro le quinte; un po’ perché da qui si vede tutto, i macchinisti abbassano le americane, tirano giù dall’alto questo enorme rettangolo di metallo con i fari agganciati e sistemano le luci, quando le rialzano tutto ha un suo posto. Le luci sono puntate sul palco e salgono gli attori e le attrici, sembrano bambole esposte sotto i migliori riflettori, perfetti. Dicevo: io resto dietro le quinte. Un po’ perché vedo i movimenti degli altri, un po’ perché è dove ci sono tutti gli stand della costumista. Stand alti pieni di gonne di lana, camice, sciarpe, e soprattutto tante, tante, tante pellicce; gli abiti sono numerati, puzzano di vecchio, del disinfettante del magazzino dove nonna li conserva, ma almeno tra i vestiti non si fa caso al riscaldamento spento.
Mi siedo dietro gli stand, sono arrivati gli attori, sbircio da dietro una tenda di velluto. Io ci provo a non farmi vedere, a incastrarmi ovunque, ma lei continua a trovarmi. Mi guarda dai suoi enormi occhiali da sole: sembra una mosca eppure ci vede benissimo. «Tu stai lì» mi ordina, burbera «che gli attori sono infastiditi dai bambini, bah! Bambini infastiditi da altri bambini». Mi guarda i piedi, io lo so che fa fatica a non sorridere dei calzini strambi che porto, è lei che me li regala, le ricordo Pippi Calzelunghe. «Mettiti questa addosso» grida lanciandomi una pelliccia presa dallo stand, la numero 7. «Dopo gli scarponcini li troviamo, saranno sicuramente stati i macchinisti. Maledetti macchinisti. Maledetti!» grida, mentre zoppica verso il palco. Io non so come facesse a sapere degli scarponcini, ma lei sa tutto.
Questo palco è montato male, le assi sono inchiodate al contrario, le hanno messe curve. Gli attori e le attrici sono esposti in mutande, tremano, battono i denti e muovono male i piedi, vorrei moltiplicare i miei perduti scarponcini e regalarli a tutti.
Vorrei regalare anche questa pelliccia, così non tremerebbero più. Questa pelliccia marrone, con il pelo sulle maniche e sulle tasche. Mamma dice che ho i geloni, che devo tenere le mani al caldo, ma qui le tasche sono piene.
Intanto sono piene di spilli, per tenere attaccato il pelo, qualcuno l’avrà tirato via. Poi ci sono carte, scontrini, biglietti del teatro. Leggo, piano piano perché per ora così so fare. Scontrino: BRECHT, 500 lire. Io lo so cosa sono le lire, nonna mi insegna tutto. Ho perso gli scarponcini ma il mio zainetto no, prendo il quadernino rosso e scrivo le cose che non so, in grande scrivo BRECHT. Butto tutto per terra, così posso infilare le mani in tasca. Butto una pipa, spero non sia per la scena, butto per terra anche una scatoletta, ci ripenso, è una scatoletta di fiammiferi. E se prendesse tutto fuoco io come faccio a prendermene la colpa? Dovrei darla ai macchinisti e la nonna già li ha chiamati “maledetti”, non è il caso.
Infine c’è un foglietto giallo, tutto spiegazzato, è una poesia. È una poesia per forza, è in rima e a scuola dicono che le parole in rima sono poesia.
“Mosca, burbera tu con gli occhi blu, vestimi bene e amami di più. Io guardo te da quaggiù, tu ascolta me da lassù.”
Giro il foglietto, c’è la scrittura della nonna: “Luigi porta la tua pelliccia in lavanderia, che qui dentro puzzi di più, se no non ti guardo dalle quinte, figuriamoci dal palchetto”.
La nonna entra senza farsi sentire, io accartoccio con grande velocità il foglietto. Lei ha i miei scarponcini in mano, non so dove li abbia trovati, me li lancia davanti: «C’è tua madre fuori, Luigina» mi chiama, abbassa lievemente gli occhiali «la prossima volta che li vuoi perdere, qui c’è sempre posto».
Adele Bilotta, delle volte anche adeliocompresso, classe ’99.
Ha studiato per fare l’attrice, per fare l’editor, per scrivere, per cantare, per suonare, ha studiato per fare tutto perché la vita è una e si arrabbia quando gli altri dicono che bisogna fare una cosa sola. «Nella vita bisogna scegliere una strada e focalizzarsi solo su quella» ecco, Adele Bilotta sta studiando di tutto fuorché come mantenere la calma quando le dicono che no, non può fare tutto.
L’illustrazione è di Marta Caretto.
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