La cineteca di Bologna ha appena restaurato cinque capolavori del maestro Akira Kurosawa. Ovvero, il primo regista giapponese ad aprire lo sguardo verso il cinema occidentale.
Attivo dagli anni ‘40 agli anni ‘90, rispetto al suo famoso predecessore Yasujirō Ozu, Kurosawa ha avuto la particolarità di sperimentare più generi e soprattutto di trovare il coraggio, pur esponendosi a critiche, di allontanarsi dalla cultura puramente giapponese che la sua famiglia, discendente da antichi samurai, gli aveva trasmesso.
Uomo di ampio spessore culturale, alla passione prima per il teatro Kabuki e i classici della letteratura e poesia del Sol Levante affianca quella dei classici occidentali: Dostoevskij e Pirandello su tutti, ma anche della tragedia greca e i drammi shakespeariani, scrittori europei come Simenon e d’oltreoceano come lo statunitense Hammett. Da tutti trae ispirazione per sviluppare film dalle tematiche nuove con un occhio ben attento agli orrori della storia, con particolare riferimento allo scenario post-bellico del Giappone. Prima di quella grande guerra, il Giappone viveva una sorta di isolazionismo culturale, ma gli attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki rappresentarono una svolta epocale: la necessità di ricostruzione ha portato la cultura giapponese a guardare oltre i confini. Qui si colloca il cinema di Kurosawa, che ne rappresenta tutti gli elementi sia narrativi che figurativi. Una meravigliosa domenica (1947), L’angelo ubriaco (1948) in particolare, ma un po’ tutta la sua cinematografia, contengono elementi neorealistici. In questo senso è stato ispirato anche dal neorealismo italiano. A ciò si aggiunge la fascinazione di un mondo nuovo, quello occidentale, che riscuote interesse poiché sgravato da quelle rigidità tipiche dei riti giapponesi.
Yasujirō Ozu ci aveva già provato introducendo alcuni elementi nel suo cinema, come l’impatto delle prime invenzioni tecnologiche (la tv e la lavatrice) allora mal digerite dalle tradizionali famiglie nipponiche. Ma il suo cinema, seppur ricco, poetico, rimane ancorato alla tradizione e soprattutto a un cinema essenziale, legato al tema dei rapporti familiari, e a una regia significativa, ma statica.
Kurosawa va oltre, soprattutto nei generi e nell’introduzione di nuovi elementi. Spazia dal fantasy al noir, dall’azione al dramma, alla commedia. La capacità di armonizzare più generi nella stessa pellicola sarà una prerogativa del suo cinema, così come quella di ambientare le trame sia nella contemporaneità che nel Giappone medioevale. In più l’elemento dell’ironia con personaggi strambi, buffi che si associano ai duri e ai cattivi (elemento che sarà poi ripreso dal cinema western). E così gira L’idiota (ispirato al romanzo di Dostoevskij), Il trono di sangue e Ran (ispirati a tragedie shakespeariane), La fortezza nascosta, che ha inspirato la celebre sagra di Star Wars.
A lui il merito di aver aperto la porta al cinema moderno con trame non più lineari che seguono, dunque, un ordine cronologico, ma a uno stile di narrazione fatto di trame e sottotrame, intrecci e il frequente ricorso ai flashback. Tuttavia, il suo cinema rimane semisconosciuto fino a Rashomon del 1950, grazie al quale riuscì ad aprirsi il varco ed entrare nel mondo del cinema internazionale come da sua stessa affermazione, grazie anche al Leone d’oro al miglior film al festival di Venezia.
I film che lo hanno reso maggiormente celebre sono quelli che la cineteca di Bologna ha opportunamente restaurato fornendoci un’occasione da non perdere. I sette samurai (1954) e La sfida del samurai (1961) hanno fatto scuola ispirando molti registi del genere western, tra cui Sergio Leone che, seppur conscio di aver introdotto nel suo cinema un personale stile di regia, deve a Kurosawa il suo debutto nel genere spaghetti western (Per un pugno di dollari (1964) è liberamente ispirato a La sfida del samurai); il western americano I magnifici sette (1960) di John Sturges è la versione western de I sette samurai.
Da non perdere anche gli altri tre: Sanjuro del 1962 (sequel de I sette samurai); il polivalente Cane randagio del 1949, film che abbraccia più generi: giallo, noir, poliziesco, drammatico, thriller; e il melodrammatico Vivere del 1952, che rappresenta, forse, il film più esistenzialista del maestro giapponese. Anche nello stile della regia riscontriamo molteplici innovazioni.
Uno stile assolutamente dinamico, estremamente originale, che si potrebbe sintetizzare con quattro movimenti: il movimento della natura: vento, acqua, fuoco; il movimento dei gruppi; il movimento dei personaggi in pose irrealistiche ed esasperate; il movimento della cinepresa: dettaglio, totale, primo piano. Rivedere Kurosawa al cinema non rappresenta soltanto una riscoperta, ma un’occasione per rinnovarsi.
Marco D’Alterio
I cinque film restaurati dalla cineteca di Bologna sono La sfida del samurai (1961), Cane randagio (1949), Vivere (1952), I sette samurai (1954) e Sanjuro (1962).
La nonna armeggia in cucina mentre me ne sto seduta con le gambe incrociate sulla…
In attesa di scoprire quale sarà il film dell’anno ai premi più prestigiosi del mondo,…
Di recente Gerardo Spirito è tornato in libreria con un nuovo romanzo, Madreselva, edito da…
La mia mano destra ha in mano un ombrello. Un ombrello di quelli lunghi, neri.…
Il libro di Martina Ásero, Tutte le vecchie difese marce, offre una biografia non convenzionale…
Ogni mattino inizia con il caffè fumante, che sgorga dalla caffettiera. Ogni lista di cose…